(da La Stampa, 19 maggio 2009; di Jacopo Iacoboni)
«Sempre coi deboli». Vattimo: mi ha dato retta
TORINO. Più che un sobillatore, col megafono in mano sembra il poliziotto che fu. Eppure. Dal microfono al megafono, dal ceto medio riflessivo agli operai, dal Salone del libro a Mirafiori: Di Pietro prova a papparseli uno a uno, i luoghi della sinistra. Sul semaforo davanti alla leggendaria porta 2 sta un manifesto titolato «Rivoluzione comunista. Ogni proletariato che avanza indica la strada agli operai degli altri paesi». Non è andata esattamente così, finora. E i muri sono tappezzati di santini elettorali. Dell’Italia dei Valori. Alle 13,59, quando Tonino avvista i primi operai che escono dalle carrozzerie Mirafiori - dov’è arrivato in moto - si toglie la giacca, resta con un bizzarro camiciotto a maniche corte, imbraccia il megafono e inneggia alla lotta di classe: «Operaie, operai, sono un ex magistrato che nella sua vita è sempre stato dalla parte dei più deboli. Per questo sono venuto qui, tra i lavoratori della Fiat. Siamo orgogliosi di quello che la Fiat sta facendo nel mondo, ma non sposti altrove il lavoro, non chiuda le fabbriche, apra una trattativa con i lavoratori italiani.
TORINO. Più che un sobillatore, col megafono in mano sembra il poliziotto che fu. Eppure. Dal microfono al megafono, dal ceto medio riflessivo agli operai, dal Salone del libro a Mirafiori: Di Pietro prova a papparseli uno a uno, i luoghi della sinistra. Sul semaforo davanti alla leggendaria porta 2 sta un manifesto titolato «Rivoluzione comunista. Ogni proletariato che avanza indica la strada agli operai degli altri paesi». Non è andata esattamente così, finora. E i muri sono tappezzati di santini elettorali. Dell’Italia dei Valori. Alle 13,59, quando Tonino avvista i primi operai che escono dalle carrozzerie Mirafiori - dov’è arrivato in moto - si toglie la giacca, resta con un bizzarro camiciotto a maniche corte, imbraccia il megafono e inneggia alla lotta di classe: «Operaie, operai, sono un ex magistrato che nella sua vita è sempre stato dalla parte dei più deboli. Per questo sono venuto qui, tra i lavoratori della Fiat. Siamo orgogliosi di quello che la Fiat sta facendo nel mondo, ma non sposti altrove il lavoro, non chiuda le fabbriche, apra una trattativa con i lavoratori italiani.
Vogliamo sapere che piano industriale c’è, sennò rischiamo una fregatura. Voi tenete duro». E sull’aggressione a Gianni Rinaldini, il capo della Fiom: «Certo siamo contro ogni violenza, ma adesso sta’ a vedere che la colpa è della povera gente che è arrabbiata?!». Più defilato, poco prima, aveva ripetuto «questo governo fascista! razzista! piduista! sta creando nuove fratture sociali, si apre una nuova lotta di classe». C’è chi lo guarda basito, alcuni lo sfuggono, uno solo gli impreca contro («vi fate vedere solo per pescare voti...»); ma dei millecinquecento operai delle carrozzerie che escono dal turno cominciato alle 5,40 del mattino sono numerosi quelli che gli vanno a stringere la mano. Soprattutto le operaie di mezza età. Spunta Biagio Zinni, quarant’anni in verniciatura, di Vasto, «Tonino, siamo quasi compaesani, ti voto di sicuro».
Arriva l’operaia di secondo livello Paola Fedele, lo bacia, «ma che bell’uomo neh!», e assieme a tre amiche giura «sì, la sinistra ci ha dimenticato, lui però deve promettere di venire qui anche dopo le elezioni». Si avvicina al nuovo kompagno Barbara Tibaldi, delegata Fiom a Mirafiori, e fa: «Mi chiede come andrà qui? Glielo dico io, a Mirafiori l’Italia dei valori fa cappotto». Accanto, Maurizio Zipponi, che Di Pietro ha anche candidato, annuisce. Esagerano, naturalmente. Ma voti ne prende, l’Italia dei valori, anche qui, perché nella cattedrale della classe operaia, mai andata in paradiso ma mai definitivamente persuasa dall’opzione antipolitica dell’astensione, non andare alle urne è considerato ancora un crimine, una scelta piccolo borghese. Deiana, 35 anni, operaia di terzo livello, si ferma per dieci minuti e spiega a Tonino per filo e per segno cosa dovrà dire a Porta a porta in serata.
«Guarda, il problema è che chiudono una linea su tre, aumentano la produttività delle altre due, così pagando poco di più di straordinari risparmiano i soldi della cassa integrazione, sborsati dallo Stato». Tonino ascolta, fa cenno di sì con la testa. Lei: «Mia madre, che ha sempre votato Pd, oggi vota lui. Mio padre credo resti, a fatica, su Rifondazione. Io... non so. Un pensierino ce lo faccio. Almeno ha i toni di uno che protesta». Il punto è chi gli ha ficcato in testa quest’idea - e i toni - della lotta di classe? La risposta ha la cravatta rossa. Accaldato, affaticato, divertito, però, s’aggira il professor Gianni Vattimo, camicia a quadrettini e giacchino annodato in vita; sta facendo campagna elettorale con la medesima acribia destinata, bei tempi, a Martin Heidegger.
«Eh eh eh - se la ghigna - diciamo che gli ho suggerito di dire qualcosina sul conflitto sociale... Ma io... e non solo io». Il fatto è che Tonino l’ha ascoltato. Gli scappa persino un «salario garantito» (formula d’altri tempi); parla di «tenere duro»; teorizza sulla città operaia: «Torino è la città che per prima rende evidente una differenza di classe e una questione operaia». Avrà mica letto «Classe operaia», la vecchia rivista di Mario Tronti? No, a tanto non si spinge. Ma qui ormai può succedere di tutto.
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