Contro gli ottimisti che giurano sullo sviluppo automatico
La Stampa - TuttoLibri, 4 dicembre 2010
Non è certo un libro di lettura “comoda”, l’ultimo lavoro di Danilo Zolo, Tramonto globale. La fame il patibolo la guerra (Firenze University Press, Firenze, 2010, pp. 226, euro 17,90), ma per molteplici ragioni è il testo che ci sentiamo di raccomandare più di tutti, in questo momento in cui non sappiamo più bene in che mondo viviamo. Per esempio: non sappiamo se davvero stiamo in Afganistan per garantire la pace e i diritti umani, per difenderci (come membri della Nato) dalle minacce del “terrorismo internazionale” e per condurre una “guerra umanitaria”, e cioè giusta e meritevole di ogni sacrificio anche finanziario ai danni della nostra scuola e della nostra previdenza sociale.
I tre termini che fanno da sottotitolo, fame, patibolo, guerra, non sono scelti a caso, per suscitare orrore emotivo verso questi cavalieri dell’Apocalisse. Sono i fenomeni che, secondo Zolo, giustificano il suo pessimismo, enunciato esplicitamente nella introduzione: “L’ottimismo è viltà. Il pessimismo è coraggio”. Da studioso di scienze politiche (professore a Firenze e in varie università straniere) e anche da osservatore “impegnato” della storia contemporanea, Zolo – che si richiama molto frequentemente a Bobbio e al suo L’età dei diritti, senza però dimenticare la lezione di Carl Schmitt – dedica le tre sezioni del libro ai temi che sono stati al centro di quella riflessione di Bobbio, e cioè a un bilancio dei diritti umani, dello sviluppo della democrazia e del destino della pace, nel mondo in cui viviamo e che, secondo gli ottimisti, non necessariamente vili, in virtù della globalizzazione, avrebbe finalmente la possibilità concreta di realizzare quei valori.
Proprio la globalizzazione, invece, non solo non garantisce quegli sviluppi positivi che gli ottimisti si attendevano, ma ne minaccia in modo fatale la realizzazione dei diritti. “Oggi le venti persone più ricche del mondo dispongono di una ricchezza complessiva pari a quella del miliardo più povero” (p. 111, che richiama molti studi sul tema di Luciano Gallino).
E non si tratta solo di differenze percentuali, che potrebbero messere mitigate dall’aumento della ricchezza complessiva. “La verità è che le spese militari,le vittime civili dei conflitti e le morti per denutrizione sono aumentate negli ultimi due decenni in tragica sintonia” (p. 17): Joseph Stiglitz, ricorda Zolo, ha calcolato che in questo periodo sono aumentate di almeno cento milioni le persone che vivono in estrema povertà, mentre il reddito mondiale globale cresceva del 2,5% all’anno.
Ma come, non lo sapevamo già, tutto questo? Certo che sì, le statistiche su cui lavorano Zolo, Stiglitz, Gallino sono pubbliche; noi stessi ne leggiamo spesso nei giornali, ce lo dice persino la televisione. Non possiamo certo pensare a un immane complotto, del tipo di quello satireggiato dall’ultimo romanzo di Umberto Eco. Solo che per Zolo è ancora più difficile credere che la globalizzazione sia un processo avvenuto da sé, per lo sviluppo casuale di forze anonime (scoperte, nuove tecnologie, ecc.). Essa è l’esito delle scelte consapevoli delle maggiori potenze del pianeta, che, dando via libera alla concorrenza globale in nome di una dogmatica fede (non certo disinteressata) nel mercato, costringono gli stati nazionali a limitare i diritti dei lavoratori, a tagliare la spesa sociale, a aumentare le spese militari.
Naturalmente, gli ottimisti credono alla tesi dello sviluppo automatico della globalizzazione (così un sociologo come Bauman, citato da Zolo) e sono convinti che essa determinerà una diffusione di democrazia, pace, diritti, proprio per i suoi benefici effetti economici. Questi teorici, western globalists come Zolo ci insegna a chiamarli, includono nelle loro file pensatori del calibro di Juergen Habermas, Amartya Sen, Ralph Dahrendorf, oltre a Bauman, a Michael Walzer, Michael Ignatieff, Ulrich Beck. E’ utile fare questi nomi perché sono l’élite del progressismo democratico. Le cui aspettative sono tragicamente smentite appunto da realistico bilancio di Zolo, che proprio in questo realismo si mostra vero discepolo dell’ultimo Bobbio.
Se l’esplosione delle diseguaglianze economiche smentisce le speranze nella globalizzazione, il riconoscimento dei diritti umani è sempre più pesantemente minacciato dalla diffusione delle pretese universalistiche del common sense morale occidentale che, implicitamente per molti ed esplicitamente per alcuni come Walzer, non ha bisogno di giustificazioni, è l’etica universale tout court (vedi p. 162). A cui ricorrere per decidere su guerre giuste, azioni di polizia internazionale, interventi umanitari richiesti o anche no dalle Nazioni Unite, e gestiti sempre più autonomamente dalla Nato. Anche sul tema della pace, perciò, il nostro mondo ormai, e per ora, unipolare, è molto meno sicuro che ai tempi della Guerra fredda.
Zolo non pretende ovviamente di suggerire ricette contro questo tramonto globale delle nostre speranze. Si spinge solo a dire che se l’Europa riuscisse a diventare un vero soggetto politico autonomo, anzitutto dagli Stati Uniti, potremmo sperare in una più vivace multipolarità, magari un po’ più conflittuale ma capace di risvegliarci dal letargo e riaprire le finestre del futuro.
Gianni Vattimo
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