giovedì 26 agosto 2010
La nostra passione vincerà sui loro interessi
martedì 24 agosto 2010
Sul sentiero dei filosofi, due virgole cambiano tutto
Un altro consiglio di viaggio, dal mio articolo su La Stampa di ieri.
“Il Philosophenweg è un sentiero lungo circa due chilometri, che sale dal quartiere Neuenheim di Heidelberg verso l’altura dello Heiliger Berg”. Sono le prime righe del breve articolo che chiunque può trovare in Wikipedia, e al quale ho dovuto ricorrere per rinfrescare la mia memoria circa un luogo che per anni mi è rimasto in mente accentuando sempre più i suoi caratteri mitici e perdendo parallelamente ogni concretezza. Al punto che oggi, per arrivare ad imboccarlo, dovrei chiedere indicazioni.
Quando arrivo a Heidelberg (è già la seconda volta, ci sono stato due anni prima per un breve corso estivo) è il mese di ottobre del 1963. Sono titolare di una borsa della Fondazione Alexander von Humboldt - una delle più prestigiose e certo tra le più ricche – e mi preparo a passare almeno un anno, ma saranno poi due, seguendo i corsi di Hans Georg Gadamer, di Karl Loewith, e di Juergen Habermas da poco nominato in quella università. Poiché me lo posso permettere, cerco casa in uno dei quartieri più belli della città vecchia, subito al di là dell’Alte Bruecke, il ponte vecchio che scavalca il Neckar e conduce anche verso il Philosophenweg. Già da vari mesi ho cominciato a studiare Heidegger (mia madre resterà sempre incerta se studio Heidegger a Heidelberg oppure Heidelberg a Heidegger..) e il poeta che lui predilige, Friedrich Hoelderlin. Direi che i quel momento sono affetto da una ammirazione quasi patologica per la cultura tedesca: quando apro Hoelderlin provo una sorta di emozione fisica, il cuore in gola di chi si accosta a un sancta sanctorum. E sul Philosophenweg, che una delle prime sere comincio a salire, c’è anche un punto con una Hoelderlinstein, una pietra che segna il luogo da cui Hoelderlin ammirò il panorama della città vecchia ispirandovi una sua famosa poesia . Non ricordo di averla vista davvero; mi torna in mente la delusione provata quando, sul lago di Silvaplana, raggiunsi la “Pietra dell’eterno ritorno”, il luogo dove Nietzsche ebbe la rivelazione della idea che dominò da allora in poi tutto il suo pensiero: un sasso quasi invisibile, che sfuggirebbe al viandante se non ci fosse una scritta....Ma i filosofi a cui è intitolato il sentiero? Non sono i grandi classici tedeschi (ci sarà passato almeno Hegel, certo, che insegnò qui; e più di recente Max Weber, la cui casa si affacciava sul Neckar sotto la collina su cui si arrampica la strada). Il nome allude agli studenti che usavano passeggiarvi, spesso non solo in compagnia dei libri; e che, secondo un uso ottocentesco, erano tutti, almeno all’inizio, studenti di filosofia (Così come oggi chi compia il terzo ciclo di studi in una università americana, fosse pure un geografo o un chimico, è un PhD, Philosophiae Doctor). Anche di studenti, però, in quel mese di ottobre ne incontro pochi: i corsi cominciano a novembre, la città non è ancora così animata come sarà nel corso del semestre. Oltre a leggere Hoelderlin e Heidegger, vado solo a trovare Gadamer; che abita in collina, tanto che sulle prime mi immagino che viva appunto sul Philosophenweg, il che per la mia mitologia personale sarebbe il massimo. Ma no, sta da un’altra parte della collina; dove, invitato a cena, arrivo (con il mio mazzo di rose per la signora, Frau Professor) con un giorno netto di ritardo. Conosco le parole Samstag e Sonntag, sabato e domenica. Ma non ancora Sonnabend, che è altro termine per sabato. Risultato, credo di dover andare la domenica (Sonntag) sera (Abend). Gadamer mi ricorderà l’episodio anni dopo, quella sera lo stufato di cervo mi aspettava comunque. Del resto,mentre seguo benissimo le sue lezioni pubbliche, non sempre sono sicuro di capire quello che Gadamer mi dice nei colloqui privati; credo anche per la sua abitudine di intercalare espressioni del tedesco parlato: sowieso, kaum (appena appena, a stento, non proprio ma..)..Ancora oggi non mi fido di questo kaum, e anche Sonnabend continuo a sfuggirlo. Ma intanto, aveva allora 63 anni, Gadamer comincia a imparare l’italiano, e preferisce che io gli parli nella mia lingua. La kaum-frage, la questione del kaum, però, si riproduce in termini diversi: non sempre capisco il suo italiano Anche per questo le nostre conversazioni sono spesso lunghissime: discutiamo della mia traduzione del suo libro Wahrheit und Methode, che concluderò solo alla fine degli anni Sessanta, e che, edita da Fabbri e poi da Bompiani, rimarrà per vari anni l’unica traduzione esistente.
Tutto questo e molto altro evoca in me il Philosophenweg. A dimostrazione che tutto, o quasi, sta nei nomi: “l’essere che può venir compreso è linguaggio”, è una delle tesi centrali di Verità e metodo , su cui, anche guardando dall’alto della collina il Philosophenweg, ho avuto il privilegio di discutere con Gadamer : mettere o no tra due virgole la proposizione relativa, come in tedesco non si può non fare? Se ne è discusso ancora il giorno del centesimo compleanno del maestro, nella vecchia aula magna di Hedelberg, In italiano le virgole cambiano tutto: “L’essere, che può venir compreso, è linguaggio” – significa “tutto l’essere”. Senza le virgole, invece, solo quell’essere che può venir compreso è linguaggio; ma finisce per sembrare una tautologia. Temo che Gadamer, da buon pensatore moderato che non voleva urtarsi troppo con i “realisti”, tendesse a preferire l’italiano senza virgole, Ma io pensavo e penso che il suo, nostro, ispiratore Heidegger sarebbe stato per la versione più radicale, con le virgole.
Ma torniamo al Philosophenweg. Che di per sé non è molto diverso da tanti sentieri della collina torinese. Dunque (una prova che ci vogliono le virgole?) tutto sta nel nome. E non so nemmeno se, nominandolo in italiano, avrebbe per me la stessa suggestione. Sempre ancora con il mio cuore in gola appena avvicino la lingua di Hoelderlin e di Heidegger.
domenica 22 agosto 2010
Idee primarie
domenica 15 agosto 2010
Botta e risposta su verità, relativismo, berlusconismo
Cari amici, permettetemi qualche osservazione sull’articolo di Giorgio Fontana uscito il 12 agosto. Sebbene sia citato solo per inciso, si tratta qui del (mio) relativismo. Del quale si dice, come da parte di molti altri critici, che porta ad “assurdità palesi” (ma l’esempio degli scienziati niente affatto disinteressati non mi sembra così palesemente assurdo, anche se l’interesse che li muove può essere un po’meno individuale: sconfiggere il cancro, scoprire una energia rinnovabile e pulita: sempre interesse è, non “amore della verità”). Nel penultimo capoverso dello scritto, poi, Fontana elenca una serie di condizioni per poter tornare alla buona vecchia etica della verità: tra di esse “la responsabilità di fissare dei limiti, di trovare delle basi comuni, di fidarsi di determinati esperti”, ecc. Già, ma questo è proprio ciò che un buon ermeneutico sa di dover fare, dato che niente gli si dà “oggettivamente” e senza mediazioni di schemi e paradigmi. Grazie dell’ospitalità.
Sessualità e libertà. Viaggio tra libertini e prostitute, passando per Lutero e Marcuse
Il mio articolo ferragostano, uscito sull'Espresso di questa settimana.
Ma i filosofi libertini del Sei e Settecento, o anche i classici dell’illuminismo che ne continuarono l’insegnamento, erano anche dediti al libertinaggio (termine con cui, ancora poco tempo fa, qualche articolo di legge bollava l’attività di prostitute e clienti)? O ancora: davvero, come ci è stato raccontato da piccoli al catechismo, Lutero si ribellò al papa di Roma per cedere alle lusinghe di una donna, che come monaco non avrebbe dovuto avvicinare? E gli studenti ribelli del maggio '68 erano davvero inclini a occupare le sedi universitarie passandovi la notte solo perché questo favoriva una sfrenata promiscuità sessuale?
C’è un potenziale rivoluzionario, o almeno umanamente emancipatorio, nella rivendicazione teorica e pratica della propria libertà sessuale? Un’idea che si era ventilata ai tempi del khomeinismo più chiuso e moralista era di promuovere incursioni aeree sull'Iran in cui invece di bombe si lanciassero videocassette porno e preservativi. Nessuna potenza raccolse la proposta, e ancora oggi forse non ha perduto del tutto la sua attualità. Ma non era una proposta “seria”, ovviamente. Più serio, però, più degno di discorsi non puramente provocatori e grotteschi è il bilancio economico delle aziende che producono e vendono oggi (non in Iran, naturalmente) materiale pornografico, e che sembrano conoscere una nuova fortuna attraverso l’alleanza con la comunicazione elettronica e quella vera e propria forma di nuova biblioteca che è l’iPod. Altro che libertinismo sei- settecentesco – che anche allora, del resto, oltre che con i libri dei filosofi, si diffondeva con la letteratura pornografica. La diffusione del libro nei primi secoli dell’età moderna è forse stata, almeno in parte, un fenomeno come il successo della Fiat 600 nell’Italia degli anni Sessanta – per molti, l’unico posto in cui trovare un po’ di privacy per avventure sessuali altrimenti impossibili; o come quello del personal computer e, più di recente, dell’Ipod oggi. Luoghi dove esercitare una libertà che ci è altrimenti negata. Fantasticare immaginando situazioni che corrispondano ai nostri desideri è sempre stato considerato un esercizio vano – Don Chisciotte e i suoi mulini a vento; e nel caso che i desideri siano a contenuto sessuale, anatema sit: i “pensieri cattivi” sono male in sé e soprattutto male perché ci dispongono a peccare “davvero”. Ma davvero? Quando sono il modo in cui signore (e signori) trovano la via per soddisfare desideri che non pensano affatto di poter realizzare, che male c’è? La nascita del sesso virtuale con l’uso di strumenti elettronici pone problemi inediti anche alla morale cattolica: anche il Vangelo, probabilmente, condannava lo sguardo di concupiscenza perché spingeva a commettere poi davvero l’adulterio sognato. Certo, un confessore rigoroso obietterà che nel sesso virtuale c’è anche una componente onanistica, che la morale condanna: Onan e lo spreco del seme, eccetera. Ma in tempi di sovrappopolazione è un tema che nemmeno Buttiglione si sogna più di evocare.
Tuttavia, a parte la considerazione socio-economica del fenomeno, c’è davvero qualcuno che oggi rivendica il significo emancipatorio della pornografia anche e soprattutto nella forma della realtà virtuale? Soddisfarsi sessualmente davanti allo schermo del computer è un’attività che – a quanto pare – molti praticano e nessuno ammette o difende. Se non altro perché siamo ancora tutti dominati dall’idea che “farlo davvero” con un partner è “meglio”: più “umano” (argomento dei confessori contro la masturbazione), più “virile” (“io ne stronco quattro” secondo un noto presidente del consiglio), insomma più autentico. Bah, fino a che punto tutto questo non indica una soggezione alla metafisica della presenza che un heideggeriano o un derridiano troverebbe drammaticamente datata? Non solo la pornografia potrebbe rivelarsi un’altra via per rompere le catene della repressione (Marcuse non sarebbe forse d’accordo, anche lui ancora prigioniero di un pregiudizio “presenzialistico”...), ma anche per farci uscire dal predominio del “principio di realtà” che gratta gratta è sempre una faccenda di classe, di ricchezza, di potere.
Per tante ragioni, comunque, alcune buone e altre solo moralistiche, è difficile che le signore americane con i loro porno-video-romanzi possano considerarsi avanguardie rivoluzionarie… Però, visto che intanto il grosso delle forze della rivoluzione tarda ormai irrimediabilmente, anche una piccola avanguardia come questa può rivendicare una sua dignità.
martedì 10 agosto 2010
Casa Gramsci
Casa Gramsci
Le aziende europee e i diritti umani in Colombia
Le aziende europee e i diritti umani in Colombia