Non sapremmo dire se sia (ancora) solo un
wishful thinking; ma da vari segni – numero di traduzioni, discussioni sempre più frequenti in varie università, inviti a singoli autori – si direbbe che davvero la filosofia italiana di oggi stia sbarcando negli Stati Uniti, affiancando o persino minacciando di scalzare la predominante popolarità dei francesi cominciata negli Anni Settanta.
Non è inverosimile pensare che finita, o almeno abbastanza ridotta l’egemonia francofona, si apra una stagione, se non di egemonia, almeno di più franco riconoscimento della produzione filosofica italiana. L’egemonia francofona va qui richiamata anche perché, almeno a stare a quanto leggiamo nel saggio di Roberto Esposito “Pensiero vivente” (editore Einaudi), l’arrivo degli italiani più recenti sulla scena filosofica statunitense è segnato per molti aspetti anche dall’eredità di quella precedente egemonia.
Il temine «biopolitica», che è al centro del lavoro di Roberto Esposito (del suo lavoro filosofico più in generale, non solo di questo ultimo libro) è una «invenzione» di Michel Foucault. E molti stilemi e, talvolta, civetterie linguistiche che non sempre ci piacciono nel libro (fatto di cinque capitoli e quattro «varchi») sono la traccia di una certa egemonia francese nella nostra cultura filosofica. Viene talvolta la tentazione di ripetere a Esposito, in tutta amicizia, il consiglio che si dice abbia dato una volta Benedetto Croce a un noto filosofo meridionale in procinto di trasferirsi in una università del Nord: «professo’, imparatevi u napuletano».
Del resto, non suoni come una osservazione leghista, molto marcata dal pensiero napoletano è la ricostruzione che Esposito offre della tradizione filosofica italiana che fa da sfondo legittimante alla nostra filosofia recente centrata intorno alla biopolitica: non solo Vico e De Sanctis, ma prima di tutto Giordano Bruno, e poi Vincenzo Cuoco, Gentile e Croce (e il sardo Gramsci non sarà anche lui assimilabile?).
Ma a parte ogni specificità regionale, quello che caratterizza la filosofia italiana e la rende degna di essere riconosciuta oggi come una voce originale e ricca di suggerimenti per tutto il pensiero contemporaneo non è tanto, come spesso ci era sembrato di riconoscere, la sua peculiare costante connessione con la vita sociale e politica del paese, mentre altre tradizioni erano state sempre più attente al rapporto con le scienze o con la letteratura.
Per Esposito – che certo non lo ignora – questo legame va messo sotto la categoria
più generale e per lui più fondamentale del rapporto con la vita, con il
bios, una categoria che copre ben più che la storia e la vita sociale, e che anzi ha una sorta di portata esplosiva proprio nei confronti dello storicismo che ha sempre dominato il pensiero italiano.
Non «tutto è storia», dovremmo dire come pensava Croce, ma «tutto è vita, ossia bios» e dunque anche corporeità, appartenenza elementare alla natura (molte pagine sono dedicate agli animali, nel libro). Anzi, se tutto è, fondamentalmente,
bios, non possiamo davvero parlare di «tutto». Ci sono come due sensi non perfettamente riducibili l’uno all’altro nel discorso di Esposito: la centralità della biopolitica è anche la riscoperta del conflitto.
Il libro non parla principalmente della filosofia contemporanea – il capitolo sulla sua presenza nel panorama mondiale di oggi è solo l’ultimo – ma è una rivisitazione di tutta la storia del pensiero italiano «sub specie bios». Che conduce a vederla come una sorta di alternativa alla modernità almeno nella misura in cui questa è stata segnata dalla progressiva razionalizzazione, che Esposito chiama anche progressiva «immunizzazione», difesa da, esorcizzazione di, ciò che persiste come originario, appunto come vita non ridotta a schemi e a categorie stabili.
E’ questa vita che la nostra tradizione – Machiavelli, Bruno, Vico, Vincenzo Cuoco, Leopardi, De Sanctis, fino a Croce, Gentile e Gramsci – ha continuamente mantenuto al centro della propria attenzione, facendone «il perno di rotazione dell’intera filosofia italiana».
Una sorta di vera e propria esplosione della vita in tutta la sua problematicità è, da ultimo, il lavoro di Pier Paolo Pasolini, a cui Esposito dedica un appassionato e appassionante penultimo capitolo del libro. I nomi di Gramsci e di Pasolini ancor più che quelli «storici» dicono anche in che senso Esposito parli di biopolitica. Che oggi gli sia possibile ricostruire dal punto di vista del
bios l’intera storia della filosofia italiana non è un caso o effetto di un colpo d’ingegno. Di fatto, come ha insegnato Foucault, il potere è diventato sempre più bio-potere, capace di foggiare le nostre vite anche in termini emozionali e corporei. Fin dalle sue origini la razionalizzazione industriale ha determinato l’organizzazione del tempo di vita delle masse, della loro sessualità attraverso le politiche della famiglia, e oggi ne manipola i desideri e gli ideali di consumo. Il bio-potere è in effetti il luogo del conflitto principale; e il
bios, la vita (quella che, con Agamben, si chiamerebbe la «nuda vita») è anche il movente originario della ribellione, quello che la razionalizzazione moderna ha troppo a lungo dimenticato.
Si capisce perché Esposito attribuisca tanta portata a questo discorso, che gli permette di mettere insieme, in un processo unitario e ricco di senso, molti più elementi di quelli che si possano enumerare in una recensione. Insieme alle piccole civetterie stilistiche già segnalate, ciò che limita (di poco, confessiamolo) l’ammirazione per il libro è, alla fin fine, una certa genericità della categoria del
bios, che proprio per questo si presta a inclusioni ecumeniche e rischia di vanificarsi. Il
bios è certamente ciò che la filosofia moderna ha dimenticato, e in nome di cui è giusto ribellarsi, anche sul piano teorico. Ma forse, per la biopolitica e per la politica
tout court, va citato qui un altro grande poeta italiano, Montale: «codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Gianni Vattimo