martedì 26 ottobre 2010

Gifford Lectures: video

Gifford Lectures at the University of Glasgow

The Gifford Lectures, established under the will of Adam Lord Gifford (1820-1887), are to 'promote and diffuse the study of Natural Theology in the widest sense of the term—in other words, the knowledge of God.' These lectures are sponsored by the universities of Aberdeen, Edinburgh, Glasgow, and St. Andrews. Since the first lecture in 1888, these lectures are held annually at the sponsoring universities.

2010 Lectures

7-10 June 2010: Gianni Vattimo

The End of Reality

Monday, 7 June - 'Tarski and the quotation marks of His principle'
Tuesday, 8 June - 'Beyond Phenomenology'
Wednesday, 9 June - 'Being and Event'
Thursday, 10 June - 'The Ethical Dissolution of Reality'
Followed by drinks reception

Western Infirmary Lecture Theatre (WILT), off University Place, Glasgow







Interrogazione alla Commissione sul programma di controllo delle transazioni finanziarie dei terroristi

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-8327/2010 alla Commissione

Articolo 117 del regolamento

Sophia in 't Veld (ALDE), Alexander Alvaro (ALDE), Renate Weber (ALDE), Sonia Alfano (ALDE), Gianni Vattimo (ALDE), Louis Michel (ALDE) e Baroness Sarah Ludford (ALDE)

Oggetto: Garante ad interim e permanente del programma di controllo delle transazioni finanziarie dei terroristi

L'8 luglio 2010 il Parlamento europeo ha approvato l'accordo tra l'Unione europea e gli Stati Uniti d'America sul trattamento e il trasferimento di dati di messaggistica finanziaria dall'Unione europea agli Stati Uniti ai fini del programma di controllo delle transazioni finanziarie dei terroristi. La risoluzione legislativa del Parlamento invitava "la Commissione, ai sensi dell'articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che stabilisce che i dati personali siano soggetti al controllo di 'un'autorità indipendente', a presentare quanto prima al Parlamento europeo e al Consiglio una rosa di tre candidati tra cui sarà scelta la personalità indipendente che svolgerà per conto dell'Unione europea il ruolo di cui all'articolo 12, paragrafo 1, dell'accordo", precisando che "la procedura deve essere, mutatis mutandis, la stessa seguita dal Parlamento europeo e dal Consiglio per la nomina del garante europeo della protezione dei dati di cui al regolamento (CE) n. 45/2001 recante applicazione dell'articolo 286 del trattato CE" (http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=TA&language=IT&reference=P7-TA-2010-0279#def_1_3#def_1_3).

Il 27 agosto la Commissione europea ha annunciato la nomina di un garante indipendente ad interim. Il 29 luglio la Commissione ha pubblicato un invito a presentare le candidature per la posizione permanente di garante ai fini del programma di controllo delle transazioni finanziarie dei terroristi e ora sta esaminando le candidature ricevute. Tuttavia, la Commissione, per "motivi di sicurezza" ha deciso di tenere segreto o confidenziale il nome del garante ad interim. Inoltre, la Commissione non ha applicato la procedura richiesta dal Parlamento, affermando che, in ragione della delicatezza della materia e della necessità di proteggere la riservatezza del nome della persona designata per motivi di sicurezza, avrebbe tenuto informato il Parlamento ai sensi degli accordi specifici sulla trasmissione delle informazioni riservate, come stabilito nell'accordo quadro tra istituzioni UE.

Può la Commissione indicare la base giuridica che giustifica il vincolo di riservatezza sull'identità di un funzionario pubblico comunitario, ad interim o permanente, preposto a controllare l'attuazione del programma di controllo delle transazioni finanziarie dei terroristi? Esistono precedenti di decisioni o accordi analoghi?

La Vita pensa più della Storia

La Vita pensa più della Storia
Il "bios", la nostra appartenenza alla natura, come centro e peculiarità della ricerca teoretica italiana

TuttoLibri, 16 ottobre 2010
Recensione de Roberto Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, 2010, 265 pp., 20 euro.

Non sapremmo dire se sia (ancora) solo un wishful thinking; ma da vari segni – numero di traduzioni, discussioni sempre più frequenti in varie università, inviti a singoli autori – si direbbe che davvero la filosofia italiana di oggi stia sbarcando negli Stati Uniti, affiancando o persino minacciando di scalzare la predominante popolarità dei francesi cominciata negli Anni Settanta.
Non è inverosimile pensare che finita, o almeno abbastanza ridotta l’egemonia francofona, si apra una stagione, se non di egemonia, almeno di più franco riconoscimento della produzione filosofica italiana. L’egemonia francofona va qui richiamata anche perché, almeno a stare a quanto leggiamo nel saggio di Roberto Esposito “Pensiero vivente” (editore Einaudi), l’arrivo degli italiani più recenti sulla scena filosofica statunitense è segnato per molti aspetti anche dall’eredità di quella precedente egemonia.
Il temine «biopolitica», che è al centro del lavoro di Roberto Esposito (del suo lavoro filosofico più in generale, non solo di questo ultimo libro) è una «invenzione» di Michel Foucault. E molti stilemi e, talvolta, civetterie linguistiche che non sempre ci piacciono nel libro (fatto di cinque capitoli e quattro «varchi») sono la traccia di una certa egemonia francese nella nostra cultura filosofica. Viene talvolta la tentazione di ripetere a Esposito, in tutta amicizia, il consiglio che si dice abbia dato una volta Benedetto Croce a un noto filosofo meridionale in procinto di trasferirsi in una università del Nord: «professo’, imparatevi u napuletano».
Del resto, non suoni come una osservazione leghista, molto marcata dal pensiero napoletano è la ricostruzione che Esposito offre della tradizione filosofica italiana che fa da sfondo legittimante alla nostra filosofia recente centrata intorno alla biopolitica: non solo Vico e De Sanctis, ma prima di tutto Giordano Bruno, e poi Vincenzo Cuoco, Gentile e Croce (e il sardo Gramsci non sarà anche lui assimilabile?).
Ma a parte ogni specificità regionale, quello che caratterizza la filosofia italiana e la rende degna di essere riconosciuta oggi come una voce originale e ricca di suggerimenti per tutto il pensiero contemporaneo non è tanto, come spesso ci era sembrato di riconoscere, la sua peculiare costante connessione con la vita sociale e politica del paese, mentre altre tradizioni erano state sempre più attente al rapporto con le scienze o con la letteratura.
Per Esposito – che certo non lo ignora – questo legame va messo sotto la categoria più generale e per lui più fondamentale del rapporto con la vita, con il bios, una categoria che copre ben più che la storia e la vita sociale, e che anzi ha una sorta di portata esplosiva proprio nei confronti dello storicismo che ha sempre dominato il pensiero italiano.
Non «tutto è storia», dovremmo dire come pensava Croce, ma «tutto è vita, ossia bios» e dunque anche corporeità, appartenenza elementare alla natura (molte pagine sono dedicate agli animali, nel libro). Anzi, se tutto è, fondamentalmente, bios, non possiamo davvero parlare di «tutto». Ci sono come due sensi non perfettamente riducibili l’uno all’altro nel discorso di Esposito: la centralità della biopolitica è anche la riscoperta del conflitto.
Il libro non parla principalmente della filosofia contemporanea – il capitolo sulla sua presenza nel panorama mondiale di oggi è solo l’ultimo – ma è una rivisitazione di tutta la storia del pensiero italiano «sub specie bios». Che conduce a vederla come una sorta di alternativa alla modernità almeno nella misura in cui questa è stata segnata dalla progressiva razionalizzazione, che Esposito chiama anche progressiva «immunizzazione», difesa da, esorcizzazione di, ciò che persiste come originario, appunto come vita non ridotta a schemi e a categorie stabili.
E’ questa vita che la nostra tradizione – Machiavelli, Bruno, Vico, Vincenzo Cuoco, Leopardi, De Sanctis, fino a Croce, Gentile e Gramsci – ha continuamente mantenuto al centro della propria attenzione, facendone «il perno di rotazione dell’intera filosofia italiana».
Una sorta di vera e propria esplosione della vita in tutta la sua problematicità è, da ultimo, il lavoro di Pier Paolo Pasolini, a cui Esposito dedica un appassionato e appassionante penultimo capitolo del libro. I nomi di Gramsci e di Pasolini ancor più che quelli «storici» dicono anche in che senso Esposito parli di biopolitica. Che oggi gli sia possibile ricostruire dal punto di vista del bios l’intera storia della filosofia italiana non è un caso o effetto di un colpo d’ingegno. Di fatto, come ha insegnato Foucault, il potere è diventato sempre più bio-potere, capace di foggiare le nostre vite anche in termini emozionali e corporei. Fin dalle sue origini la razionalizzazione industriale ha determinato l’organizzazione del tempo di vita delle masse, della loro sessualità attraverso le politiche della famiglia, e oggi ne manipola i desideri e gli ideali di consumo. Il bio-potere è in effetti il luogo del conflitto principale; e il bios, la vita (quella che, con Agamben, si chiamerebbe la «nuda vita») è anche il movente originario della ribellione, quello che la razionalizzazione moderna ha troppo a lungo dimenticato.
Si capisce perché Esposito attribuisca tanta portata a questo discorso, che gli permette di mettere insieme, in un processo unitario e ricco di senso, molti più elementi di quelli che si possano enumerare in una recensione. Insieme alle piccole civetterie stilistiche già segnalate, ciò che limita (di poco, confessiamolo) l’ammirazione per il libro è, alla fin fine, una certa genericità della categoria del bios, che proprio per questo si presta a inclusioni ecumeniche e rischia di vanificarsi. Il bios è certamente ciò che la filosofia moderna ha dimenticato, e in nome di cui è giusto ribellarsi, anche sul piano teorico. Ma forse, per la biopolitica e per la politica tout court, va citato qui un altro grande poeta italiano, Montale: «codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Gianni Vattimo

lunedì 25 ottobre 2010

Intervista a "Lo Specchio"

Una mia intervista (Vasto, 20 settembre, incontro nazionale dell'Italia dei Valori) a "Lo Specchio", blog di informazione politica.


Paura, violenza, conflitto


Ecco un mio post sul blog de Il Fatto Quotidiano

Paura, violenza, conflitto

16 ottobre 2010

Nel mio ultimo post, scrivevo di un’Europa “in fondo a destra”. Un’Europa che, sulla scia della politica conservatrice di lotta terroristica al terrorismo, coltiva un sentimento di paura costante: di attacchi terroristici come della perdita del posto di lavoro, dell’immigrazione, della privacy, della stabilità, dei privilegi. L’Italia, a tal proposito, è all’avanguardia. Eppure, l’utilizzo della paura come instrumentum regni genera effetti paradossali. In fondo, i governanti producono paura per calmarci. Ci spaventano in ogni modo, amplificando qualsiasi timore e reprimendo, al contempo, ogni sentimento di dissenso, persino l’espressione stessa del dissenso. L’operazione è talvolta sottile: la crisi economica non esiste, urlava fino a poco tempo fa B., ignorando che l’arte di governo richiede a chi comanda di infondere ottimismo, ovviamente, ma anche di agire perché l’ottimismo prevalga, laddove non ci sia. Un capo di governo che chieda ai cittadini di essere ottimisti è semplicemente irresponsabile: è proprio lui a dover creare, per tramite di politiche pubbliche, le condizioni perché l’ottimismo regni. Nella logica distorta di B., invece, chiunque gridasse allo scandalo di un governo inerte di fronte alla crisi avrebbe contribuito a danneggiare irreparabilmente la situazione. Con il risultato che oggi – si ricordi la trasmissione Annozero dell’altro ieri – chi ha davvero paura di perdere il posto di lavoro o la possibilità di offrirne accenna all’assurdità di favorire gli investimenti sul suolo africano, e dunque indirettamente anche la delocalizzazione delle nostre imprese, quando sarebbe più sensato condannare pubblicamente il governo per le mancate politiche di stimolo fiscale, per l’assenza di qualsiasi politica industriale, per l’assenza di un ministro dello sviluppo economico, per aver privilegiato relazioni economiche internazionali di ignoto (si fa per dire) interesse nazionale.

Spaventare per calmare. Ma non è una calma piatta, anzi nasconde un’ossessione per la paura di perdere qualcosa (lavoro, futuro, ecc.) e per la paura stessa. Quando si ha paura della paura, quando si teme di temere, magari perché è ostacolata l’espressione stessa della paura, si finisce per agire in modo tale da anticiparne la manifestazione; si finisce cioè per generarla direttamente, riducendo l’angosciante attesa. La paura produce violenza, e della violenza si ha paura – in particolare la temono coloro che hanno per primi da rimetterci, i nostri governanti. Che immediatamente inneggiano alla democrazia e al rispetto, come se ne fossero campioni, per richiamarci all’ordine. Siamo diventati rissosi, argomentano. Lo è diventata la sinistra, così come Di Pietro, chi contesta la Cisl, chi contesta Schifani, e via dicendo. Ciò che la vera e proprio metafisica dell’ordine che in tanti contesti ha finito – talvolta per influenza politica, altre volte per quella di qualche teoria, spesso per passaparola – per prevalere sulla libera espressione della nostra cultura, non può davvero accettare. Ma se c’è una lezione che possiamo trarre anche solo dal citato dibattito e dalle testimonianze di Annozero, è che occorre rivalutare il conflitto. Aprire le bocche. Pretendere, non chiedere, che i conflitti reali siano affrontati, che le loro cause siano prese di petto, anziché mascherate, e combattute. Si diano soldi all’università. Ci si impunti di fronte a Marchionne, magari ricordando che la Fiat non è nata con la sua amministrazione, ma che ha alle spalle una storia di mescolanza con lo stato. Si affrontino le cause dell’appiattimento di due sindacati su tre sulle posizioni del governo. Si dica apertamente, una volta tanto, che una parte importante dell’Italia non è così arrendevole come la si immagina. Il conflitto c’è, e ci chiama ad aggredirlo.
Gianni Vattimo

martedì 12 ottobre 2010

L'Europa? In fondo a destra


Post dal mio blog su Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2010

L'Europa? In fondo a destra

L’ultima doccia fredda è stata la notizia dell’ingresso dell’estrema destra nel Parlamento svedese. Che non significa la conquista della maggioranza, ma certo un passaggio significativo, per un paese che era stato il modello della socialdemocrazia europea per molti decenni. Ma questo, come ho detto, è solo l’ultimo fatto emblematico di una situazione europea nella quale i governi di destra – che pudicamente si definiscono di centro-destra – sono ogni giorno più numerosi. Del resto il Parlamento europeo, per quanto questo dato può valere, ha una maggioranza di destra, e solo molto di rado le sinistre – liberali, socialisti, verdi – ottengono qualche risultato, che peraltro deve sempre affrontare ancora l’approvazione del Consiglio Europeo, quella sorta di Camera Alta dell’Unione che rappresenta i governi dei vari stati. Ma non c’è dubbio che, a parte questi meccanismi istituzionali, l’Europa ha oggi una faccia politicamente moderata, che tende continuamente a diventare francamente di destra e che, come si vede dalle recenti leggi xenofobe che si è data la Francia (seguendo, a quanto sembra, l’esempio dell’Italia di Berlusconi!), fa ogni giorno un passo di più verso il fascismo; un fascismo per ora molto soft, ma che promette di irrigidirsi in forme sempre meno conformi alla tradizione liberale e democratica del continente.

Perché siamo improvvisamente (non proprio; ma dopo la fine del nazismo non si era mai visto un fenomeno così generalizzato; possiamo parlare di un clima, di una atmosfera, ormai) diventati conservatori, e spesso decisamente razzisti? Chi si è sempre richiamato agli ideali della sinistra stenta a spiegarsi questo fenomeno, e non è detto che anche le ipotesi che qui presento colgano nel segno. Paradossalmente, la visione del mondo della sinistra, in Europa, si è sempre fondata su presupposti filosofici della tradizione storicistica, che è stata anche l’ideologia del colonialismo: quella per la quale c’è un corso unitario della storia umana che procede verso una sempre più completa civilizzazione. La punta di questo corso, che ha anche il diritto storico di guidarlo, è l’Europa, la quale si espande nel mondo “portando la civiltà” ai popoli che ancora sono “sottosviluppati”. Quando, con la ribellione dei popoli ex-coloniali, questo schema storicistico è diventato anche filosoficamente insostenibile, la fede nel progresso del mondo verso la democrazia e il socialismo, e dunque la sinistra stessa hanno subito una crisi di fiducia. È accaduto, sul piano delle convinzioni e dell’impegno politico collettivo, qualcosa di simile alla caduta del muro di Berlino. Ancora oggi la sinistra si sente orfana e priva di forti orientamenti ideali. Se il comunismo si è rivelato impossibile, per che cosa si dovrebbe ancora lottare?

Naturalmente, questa vicenda ideologica non coinvolge davvero i milioni di elettori che in varie parti d’Europa abbandonano i partiti di sinistra per passare ai conservatori, oppure, come sempre più spesso accade, per rifugiarsi nell’astensionismo.
Questa considerazione risente certo del mio punto di vista italiano; ma il fenomeno è generale, riguarda il socialismo francese, i laburisti inglesi, persino il socialismo spagnolo. Insieme e più ancora che la caduta di tensione ideologica che identifichiamo emblematicamente con la caduta del muro di Berlino, un’altra tappa finora decisiva per lo stabilirsi di una clima di destra in Europa è stato, probabilmente, l’11 settembre, e l’inizio della guerra americana al “terrorismo internazionale”. Da dieci anni a questa parte il leit motiv della politica conservatrice è la lotta al terrorismo; una lotta che, a propria volta, è essenzialmente terroristica, ha bisogno, cioè, di coltivare un sentimento di paura costante. Quel che era ai tempi della guerra fredda la minaccia del comunismo sovietico, oggi è la paura generalizzata; non solo degli attacchi terroristici, ma molto più, di recente, la paura della perdita del posto di lavoro, di quel poco o tanto che il capitalismo mondiale continua ad assicurare ai cittadini della metropoli.

Il successo della destra, in Italia come in Francia come in Olanda come in Svezia, è fondato sulla paura, della perdita del lavoro e soprattutto dell’immigrazione. I rom sono solo l’obiettivo più recente; ma da anni, ormai, i paesi “di confine”, come l’Italia, la Spagna, la Francia, sono dominati da un’ossessione difensiva, che prevale, in larghe parti della società, sulla difesa della libertà, della privacy, delle stesse istituzioni democratiche. È sempre la paura di perdere stabilità, tranquillità, privilegi, quello che impedisce anche la realizzazione di un’Europa più autenticamente federale, e perciò anche più forte e capace di gestire il rapporto con i mondi che premono ai suoi confini. Il governo Berlusconi, per esempio, sostenuto in modo determinante da un partito sempre più esplicitamente razzista e cripto-nazista come la Lega Nord, si accorda con il dittatore libico Gheddafi a cui affida il compito di pattugliare il Mediterraneo, senza troppi scrupoli di legalità e rispetto dei diritti umani, impedendo l’immigrazione clandestina di cittadini africani spesso in cerca solo di asilo politico. Quello che fa Gheddafi per respingere gli immigranti clandestini, lo fa, nei confronti del problema del lavoro, la minaccia continua delle delocalizzazioni delle industrie. Così, da ultimo, gli operai della Fiat di Pomigliano sono stati messi di fronte alla scelta tra accettare una forte (e anticostituzionale) limitazione dei loro diritti sindacali oppure perdere il lavoro per la chiusura e il trasferimento della fabbrica in Serbia. Inutile dire che anche qui la paura ha trionfato, il referendum indetto tra gli operai ha dato ragione all’azienda. Più in generale, statistiche neutrali dicono che vari punti percentuali di PIL sono passati, negli ultimi quindici anni, dai salari ai profitti; i ricchi sempre più ricchi, i lavoratori sempre più sfruttati. Anche di squilibri come questo è fatta la disperazione che alimenta le vittorie della destra in Europa.

lunedì 11 ottobre 2010

Scienziati alla sbarra

di Gianni Vattimo, L'espresso, 08/10/2010
Gli umanisti diffidano in genere delle pretese di validità assoluta avanzate dalle scienze sperimentali. Ora Laurent Ségalat, genetista del Cnr francese, analizza, in un pamphlet di gustosa lettura, le pecche dei sistemi di legittimazione che vigono nel mondo scientifico. "La scienza malata?" (Cortina, pp. 158, e 13,50) è di grande attualità anche perché, nella foga di "aziendalizzare" ricerca e insegnamento universitari, si va a caccia di criteri capaci di valutare i risultati anche in campi che sembrano sfuggire a valutazioni oggettive: che punteggio si sarebbe assegnato, in un concorso per fondi pubblici, alla "Critica della ragion pura"?

Ségalat mostra quanto sia determinante il peso dei canali che forniscono legittimazione ai risultati della ricerca. Le riviste più prestigiose decidono sulla base di giudizi di comitati di esperti condizionati da interessi estranei al puro amore della verità. La malattia di cui soffre la scienza dipende dall'affermarsi di uno spirito di competizione che favorisce frettolosità, falsificazione e plagio, o promuovendo (con finanziamenti pubblici) ricerche di corto respiro che piacciono a comitati poco rispettosi dei ritmi più lenti di cui avrebbe bisogno una scienza innovativa.
ISBN: 9788860303486
Editore: Cortina Raffaello

sabato 9 ottobre 2010

Velhas sombras, novos medos

Velhas sombras, novos medos

Afastada a ameaça do comunismo, a Europa teme agora o terror, a imigração, a perda do emprego e o fim do que o capitalismo garante

Estadão.com.br: A versão on-line do jornal O Estado de S.Paulo

A decepção mais recente foi a notícia da chegada da extrema direita ao Parlamento sueco. É evidente que não significa a conquista da maioria, mas é uma mudança significativa em um país que foi o modelo da social-democracia europeia durante décadas. E esse é apenas o último fato emblemático de uma situação europeia na qual os governos de direita - que pudicamente se definem de centro - são cada dia mais numerosos. Aliás, o Parlamento Europeu tem uma maioria de direita e muito raramente as esquerdas - liberais, socialistas, verdes - obtêm algum resultado, que então deve ser submetido à aprovação do Conselho Europeu, uma espécie de Câmara Alta da União Europeia que representa os governos dos vários países. Mas não há dúvida de que, à parte esses mecanismos institucionais, a Europa tem hoje uma feição politicamente moderada que tende continuamente a tornar-se abertamente de direita e, como é possível constatar pelas recentes leis xenófobas aprovadas na França (seguindo, aparentemente, o exemplo da Itália de Berlusconi!), aproxima-se cada dia mais do fascismo; um fascismo por enquanto muito brando, mas que promete endurecer de uma maneira que cada vez menos se coaduna com a tradição liberal e democrática do continente.

Por que motivo de repente (nem tão de repente: é que desde o fim do nazismo não se via um fenômeno tão generalizado) nos tornamos conservadores, muitas vezes até racistas? Os que sempre se declararam fiéis aos ideais da esquerda custam a compreender , e tampouco as hipóteses que apresento aqui poderão ser consideradas as mais acertadas. Paradoxalmente, a visão de mundo da esquerda, na Europa, sempre se alicerçou em pressupostos filosóficos da tradição historicista, que foi também a ideologia do colonialismo. De fato, segundo ela existe uma trajetória unitária da história humana que caminha para uma civilização cada vez mais completa; na ponta dessa trajetória, com o direito de conduzi-la, está a Europa, que "leva a civilização" aos povos "subdesenvolvidos". Quando, com a rebelião das antigas colônias, esse esquema historicista se tornou insustentável, inclusive filosoficamente, a fé no progresso do mundo rumo à democracia e ao socialismo, assim como a esquerda, sofreu uma crise de confiança. No plano das convicções e do compromisso político coletivo ocorreu algo semelhante à queda do Muro de Berlim. Ainda hoje, a esquerda se sente órfã, necessitada de diretrizes ideais. Se o comunismo se revelou impossível, em nome de que deveríamos continuar lutando?

É evidente que essa questão ideológica não envolve os milhões de eleitores que em várias partes da Europa abandonam os partidos de esquerda e passam a aderir às correntes conservadoras, ou, como acontece com maior frequência, se refugiam no abstencionismo. Essa consideração se ressente com certeza do meu ponto de vista italiano, mas o fenômeno é geral. Diz igualmente respeito ao socialismo francês, aos trabalhistas ingleses e até ao socialismo espanhol. Ao mesmo tempo, e mais ainda do que a queda de tensão ideológica que identificamos com a derrubada do Muro de Berlim, outra etapa até agora decisiva para o estabelecimento de um clima de direita na Europa foi constituída provavelmente pelos ataques do 11 de Setembro e pelo início da "guerra ao terror" americana. De dez anos para cá, o principal motivo apontado para a política conservadora é a luta contra o terrorismo - uma luta que, por sua vez, é essencialmente terrorista, isto é, precisa cultivar um sentimento de medo constante. A ameaça do comunismo soviético na Guerra Fria foi substituída pelo medo generalizado; não apenas o medo de ataques terroristas, mas muito mais, nos últimos tempos, o medo da perda do emprego, da perda do pouco ou muito que o capitalismo mundial continua garantindo aos cidadãos da metrópole. O sucesso da direita na Itália, França, Holanda ou Suécia baseia-se no medo da perda do emprego e, principalmente, da imigração. Os romas são apenas o alvo mais recente; mas, há anos, os países de "fronteira", como a Itália, a Espanha, a França, são dominados por uma obsessão defensiva, que se sobrepõe, em grandes partes da sociedade, à defesa da liberdade, da privacidade, das próprias instituições democráticas. É sempre o medo de perder a estabilidade, a tranquilidade, os privilégios, que impede também a concretização de uma Europa mais autenticamente federal, e por isso também mais forte e capaz de administrar as relações com os mundos que pressionam suas fronteiras. Na Itália, por exemplo, o governo Berlusconi, sustentado de maneira determinante por um partido cada vez mais explicitamente racista e criptonazista como a Liga Norte, concluiu um acordo com o ditador líbio Kadafi confiando-lhe a tarefa de patrulhar o Mediterrâneo, sem muitos escrúpulos quanto à legalidade e ao respeito aos direitos humanos, impedindo a imigração clandestina de cidadãos africanos que muitas vezes buscam apenas asilo político. O método utilizado por Kadafi para reprimir imigrantes clandestinos tem o mesmo efeito da ameaça constante de transferir as indústrias para fazer frente aos problemas trabalhistas. Foi assim que os operários de uma das poucas grandes fábricas do sul da Itália, a Fiat de Pomigliano, nas proximidades de Nápoles, tiveram de escolher entre aceitar uma considerável (e inconstitucional) limitação dos seus direitos sindicais e a eventual perda do emprego com a transferência da fábrica para a Sérvia. Inútil dizer que o medo triunfou: o referendo realizado entre os operários terminou com a vitória da empresa. Outro exemplo italiano: nos últimos 15 anos, estatísticas independentes têm afirmado que vários pontos porcentuais do produto interno bruto (PIB) passaram dos salários para os lucros: os ricos estão cada vez mais ricos e os trabalhadores, cada vez mais explorados. O desespero que alimenta as vitórias da direita na Europa é fruto também desses desequilíbrios.

Gianni Vattimo
TRADUÇÃO DE ANNA CAPOVILLA

Seminario a Roma sui Cinque cubani imprigionati per aver scoperto il terrorismo Usa contro Cuba


Seminario a Roma sui cinque cubani imprigionati per aver scoperto il terrorismo Usa contro Cuba

Articolo21
(Francesca Mara Tosolini Santelli)

Domenica 17 ottobre alle 19.00, all'Auditorium Parco della Musica, sala Petrassi, l'Associazione di amicizia Italia-Cuba Circolo di Roma, organizza un seminario internazionale sul caso dei Cinque agenti dell'intelligence cubana da dodici anni in carcere negli Stati Uniti, dopo aver scoperto il terrorismo ideato e organizzato in Florida e messo in atto a Cuba, con oltre tremila morti nel corso degli anni.

Il seminario, coordinato da Gianni Minà, e al quale interverrà Rosa Frijanes, moglie di uno dei prigionieri, Fernando Gonzales, interverranno, fra gli altri, Wayne Smith, ex capo dell'Ufficio di Interessi degli Stati Uniti a l'Avana che alla fine degli anni '70, per conto del presidente Jimmy Carter, trattò un ristabilimento dei rapporti con Cuba, “poi andato in fumo per l'elezione alla presidenza di Ronald Reagan”, e il teologo della liberazione brasiliano Frei Betto, promotore del dialogo aperto negli ultimi anni fra la Revolucion e la Chiesa Cattolica, che ha portato alla recente liberazione di molti dei dissidenti arrestati nel 2003 a Cuba dopo il tentativo fallito del governo di Bush Jr di mettere con le spalle al muro il sistema politico dell'isola. Interverrà anche il prestigioso filosofo Gianni Vattimo, da sempre impegnato in tante battaglie per i diritti civili.

Il destino dei Cinque agenti dell'intelligence cubana, condannati per presunto spionaggio in un giudizio definito “arbitrario” dall'Onu, svoltosi a Miami e poi bocciato dalla Corte di Appello di Atlanta, è sospeso. Dopo il rifiuto ad intervenire della Corte Suprema degli Stati Uniti, ora è infatti nelle mani del presidente Obama che per legge potrebbe risolvere con un gesto politico la questione.
La campagna per la liberazione dei Cinque si sta svolgendo in tutto il mondo, compresi gli stessi Stati Uniti, dove si sono mossi intellettuali come Noam Chomsky e più recentemente un gruppo di artisti fra cui il regista Oliver Stone, l'attrice Susan Sarandon, Elliott Gould, Graham Nash, Ry Cooder, Pete Seeger e perfino Francisco Letelier, nipote dell'ex ministro degli Esteri del governo del leader cileno Salvador Allende, assassinato a Washington nel settembre del '76 dai terroristi di Miami su incarico della DINA, la polizia segreta del dittatore Augusto Pinochet.
I più noti di quei terroristi, Luis Posada Carriles, Orlando Bosch e Santiago Alvarez, sono ancora liberi e protetti a Miami.

giovedì 7 ottobre 2010

Vattimo: lo spazio pubblico per la cultura? Potrebbe essere Internet

Il Sole 24 ore, 7 ottobre 2010. Intervista di Stefano Biolchini

«Il vero nodo è il chi organizza gli spazi pubblici». Non ha dubbi il filosofo Gianni Vattimo nel rispondere ai quesiti posti da Christian Raimo sulle pagine del nostro giornale sull'esistenza di uno spazio pubblico per la cultura in Italia. «Chi è l'istitutore di questi spazi - rilancia provocatoriamente Vattimo - perché se, per esempio, Il Sole24ore apre lo spazio è anche chiaro che ne detenga le chiavi di accesso»

Lei ritiene che occorra perciò meglio parlare di una pluralità di spazi pubblici?

«Certamente gli spazi pubblici per il dibattito culturale debbono essere svariate tv, giornali e accessi. Poi io stesso scelgo i miei interlocutori per affinità, ma solo se esiste un pluralismo non finto si crea un vero spazio. Diversamente...»

Diversamente ci dica...anche definendo la sua idea di spazio pubblico.

«In Spagna c'è un giornale Publico che è uno spazio del governo che io leggo regolarmente perché tutti gli altri sono di editori non favorevoli alla sinistra di Zapatero».

Non rischia, quindi, proprio il controllo pubblico di farla cadere in contraddizione?

«Guardi all'esempio di Telegrapho in Equador. Stava fallendo ed è stato nazionalizzato. Il governo ne è azionista di maggioranza. Di proprietà pubbblica e quindi più pubblico, anche se certo si sa che è poi ben difficile separare il pubblico dalle proteste e posizioni del Governo in carica. La Rai pubblica ha una Commissione di vigilanza che è il massimo che si possa creare, anche se il Parlamento non è poi quello con tre "p" maiuscole. Putroppo l'equilibrio è davvero difficile. Il nostro spazio, comunque, per essere tale deve essere di molti orizzonti, espressione di partiti, di gruppi finanziari che debbono poter confliggere senza assoggettarsi a nessun monopolio. Figuriamoci, dunque, se possa fidarmi di uno spazio aperto dal Sole24ore. Idem ovviamente se fosse anche il Manifesto: quando mai si pubblica tutto quel che gli scrittori o intellettuali che dir si voglia mandano ai giornali...»

Il vero limite è quindi nei conflitti di interesse?

«Ci possono essere leggi che li limitino. Noi oggi in Italia abbiamo la legge Gasparri che lascia tv e giornali nelle mani del premier Berlusconi. Bisognerebbe porre un limite alle concentrazioni, certo.»

Questo però non dovrebbe giustificare il disimpegno come l'ininfluenza del gesto o dell'intervento degli intellettuali che vogliano impegnarsi veramente...

«È la classica domanda da un milione di dollari. Ci aveva provato Marcello Baraghini, l'editore di Stampa Alternativa. Ha aperto la porta a scrittori sconosciuti. Ma io stesso quando parlo di questi problemi mi sento un uomo di parte. Il mio grido è "decapitiamo Berlusconi, ovviamente metaforicamente". Pensi in proposito alla polemica sull'Einaudi che ora gli appartiene. Pensiamo a quanto sostenuto da Saramago sulla sua casa editrice».

Insomma a questo punto lei di spazi liberi ne lascia ben pochi. L'esperienza di Pier Paolo Pasolini per lei oggi sarebbe irripetibile?

«Oggi PPP probabilmente non scriverebbe più per un grande giornale. Quella era la stagione di Piero Ottone. Non solo non c'è più Pasolini, non ci sono più nemmeno le condizioni. Oggi intellettuali quali Umberto Eco o Claudio Magris sono moralisti che vanno bene per tutti, non danno fastidio a nessuno. Intellettuali comeTony Negri non scrivono più sui giornali»

Uno come Aldo Busi ha provato a suo modo a ritagliarsi degli spazi in programmi trash...

«Sì ma la differenza è che Pasolini faceva scandalo per quel che diceva, Busi vuole farlo. E non si tratta di un'obiezione moralista per Busi, solo che i suoi scandali sono come prodotti a freddo».

Vero è che anche la sinistra che ha dominato lo spazio del dibattito culturale del secolo scorso si è come dissolta...

«La sinistra non convince più per aver buttato a mare la sua ideologia comunista. Sto per pubblicare Comunismo ermeneutico per il riscatto. Ma certo come si può pretendere di avere intellettuali che si impegnino per il Libero mercato o per le lenzuolate di Bersani. Non ci sono slanci per la sinistra».

Provo ancora. A questo punto non ci resta che lo spazio di Internet e dei social network?

«Questo potrebbe essere il vero spazio pubblico. Anche se, con la scusa di perseguire reati, si creano progetti che vogliono imbavagliarci. Se io le mando un messaggio sospetto sempre che passi da Washington».

lunedì 4 ottobre 2010

L'Europa e la novità latino-americana

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L'Europa e la novità latino-americana

I giornali, e la televisione, italiani hanno parlato pochissimo e in modo molto superficiale del tentato golpe in Ecuador. Quello che so l’ho letto soprattutto nel Guardian di Londra e in alcune newsletter da Cuba. Già questo relativo silenzio dice molto su come si vedono le cose latino-americane dall’Europa, ormai quasi dovunque dominata da governi di destra, o comunque di stretta osservanza statunitense. Si dice talvolta che tutte le comunicazioni via internet che noi inviamo e riceviamo, in tutto il mondo, passino attraverso i server che hanno la base negli Usa, e dunque che siano potenzialmente controllate dalla Cia. Non so se sia vero; quel che mi pare certo è che, in Italia e anche in vari paesi d’Europa, le agenzie di notizie, prima, e i giornali, poi, filtrano in modo molto stretto le informazioni sull’America Latina. Così, del golpe anti-Correa noi abbiamo saputo e parlato pochissimo.

Eppure diventa sempre più evidente che, forse più ancora che la crescita di India e Cina, è proprio l’America Latina la regione del mondo che può “fare la differenza” anche nel nostro futuro europeo. Mentre dall’Oriente viene solo la conferma dell’ordine capitalistico mondiale – le banche e la borsa cinesi sono ormai la vera potenza economica che sta soppiantando il dominio nordamericano, e l’India si avvia sulla stessa strada –, la sola vera “novità” accaduta nella storia degli ultimi decenni è proprio la trasformazione dell’America Latina, la nascita in quel subcontinente di governi democratici di orientamento socialista capaci di sfidare il potere delle multinazionali e gli interessi degli Usa.

In un recente incontro con esponenti della opposizione colombiana al governo (Uribe) Santos, avvenuto al Parlamento Europeo, ci è stato spiegato che gli investimenti stranieri in Colombia – stimolati e “garantiti” dalla presenza di vere e proprie squadre di assassini che rapiscono e uccidono sindacalisti al solo accenno di uno sciopero – contano su una distribuzione dei profitti nella proporzione di 90 a 10: novanta per cento alle imprese investitrici, dieci per cento ai colombiani, governo, contadini espropriati, ecc. Non per niente la Colombia è tuttora uno dei paesi dove si aprono continuamente nuove basi militari nordamericane.

Prima Cuba, e poi sempre più Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia, Ecuador si sono dati governi che si sforzano di cambiare profondamente questa situazione di sfruttamento coloniale. L’Unione Europea, pur dominata da governi di destra (che pudicamente si definiscono di centro-destra), ha un vitale interesse per ciò che succede in America Latina. Non si tratta di aspettarsi che da un momento all’altro le nuove democrazie latino-americane abbattano violentemente la potenza Usa; ma la sola esistenza di un polo democratico-socialista nel subcontinente americano si riflette sull’Europa come una presenza capace di limitare le pretese di quell’imperialismo. So bene che le aspettative che molti di noi coltivano nei confronti di Lula, Chavez, Correa, Evo Morales contengono non poca mitologia, come se dicessimo agli amici latino-americani “occorre una rivoluzione, fatela voi perché l’Europa è troppo stanca e divisa per riuscirci”.

La concreta realtà latino-americana è assai più complessa di quanto la nostra mitologia e la nostra ammirazione riescano a immaginare. Sta di fatto che ogni golpe (come quello dell’Honduras) o tentato golpe (come quello contro Correa) che ha luogo nel sub-continente conferma l’idea che proprio di là possa venire la “novità” della nostra storia: non solo la sfida al persistente colonialismo economico che ci domina, ma anche il modello di una società non più costruita sul dominio e lo sfruttamento.

È anche e soprattutto di questo modello che l’Europa ha bisogno. La situazione emblematica rappresentata dalla Colombia, con gli investimenti stranieri “premiati” dalla divisione dei profitti nella proporzione di 90 a 10, non è ancora la nostra. Ma la delocalizzazione delle industrie europee verso paesi dove il profitto è più facile (in Italia, la Fiat minaccia di chiudere sempre più numerose fabbriche per trasferirle verso Oriente) mostra che il “modello colombiano”, la sottomissione dei sindacati con ogni tipo di minacce (per ora da noi si tratta solo di minacce di chiusura e perdita del lavoro), costituisce la via maestra sulla quale anche i nostri paesi sono avviati. Dunque – anche al di là di ogni solidarietà democratica con governi eletti dal popolo e minacciati da eserciti addestrati dai tanti “consiglieri” (si chiamavano così all’inizio anche in VietNam) nordamericani – Honduras, Ecuador, e la lotta dei loro governi popolari per la propria indipendenza ci riguardano profondamente, e questa è la prima ragione per cui l’informazione addomesticata ce ne parla così poco.