giovedì 29 luglio 2010

La rete senza centro e la censura


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La rete senza centro e la censura

Obbligo di rettifica per i blog: che fare? Se davvero la norma passasse, ci ritroveremmo in una situazione difficilmente immaginabile. Tempo fa descrissi internet, ragionando di postmodernità, come una rete senza centro, una pluralità strutturata per l’appunto nella forma di un sistema di rimandi senza centro, e proprio per questo in grado di assicurare la libertà. Parlavo della rete come il contrario dell’impero: una pluralizzazione dei poteri, che associava alla consapevolezza del carattere illusorio del nostro desiderio di privacy la possibilità di controllare noi stessi i tanti centri di potere. Inutile resistere in difesa della privatezza, che i centri sono in grado di violare quando vogliono: tanto vale dar vita a un mondo nel quale anche i potenti, e non solo i deboli e i singoli cittadini stessi, siano controllabili. Come noto, il ddl sulle intercettazioni prevede che i bloggers debbano pubblicare rettifiche, laddove siano state richieste, entro quarantotto ore dalla richiesta stessa. Chi non si adegua rischia una multa fino a 12500 euro. Bavaglio o ulteriore affermazione della rete senza centro? Bavaglio, purtroppo: la rete senza centro prevede la libertà di criticare, non l’obbligo di pentirsi. Prevede che chiunque ritenga di essere stato attaccato ingiustamente possa difendersi utilizzando la rete stessa, e cioè scrivendo a sua volta in difesa della sua persona, su un canale internettiano che potrà al limite essere lo stesso dell’accusatore, ma per libera volontà delle parti in gioco. La norma sui blog non esprime una logica di pluralizzazione dei poteri, in difesa dei presunti deboli, quanto piuttosto il suo contrario – e non è un caso che la norma stessa sia, di per sé, un atto di regolamentazione deciso dal potere centrale (un parlamento eletto democraticamente, certo; ma sappiamo quanti limiti siano stati posti a quel “democraticamente”: conflitto d’interessi, una legge elettorale che priva della libertà di scegliere i propri rappresentanti, ecc.).

Dunque, che fare? Prendere meno sul serio la norma, contando sulle infinite possibilità di internet? In fondo, anche la Cina riesce a far poco per censurare la rete. Oppure, costringerci a immaginare davvero la rete (quella senza centro) come uno strumento di libertà, e trarne le dovute conseguenze. Ribadire la democrazia – quella sostanziale, non quella formale – utilizzando la rete stessa. Immaginare forme di resistenza – qui i bloggers, che sono certo più competenti di me in materia (vero che anch’io tengo due blog…), devono impegnarsi a fondo – che rivelino il carattere creativo della rete stessa. Ho notato la proposta, giunta proprio qui sul Fatto Quotidiano, di scrivere articoli utilizzando file di immagini, che sfuggirebbero così alla rete (quella con un centro) tesa da coloro che, immaginiamo, scandaglieranno domani i fondali di internet per cercare notizie da censurare. Istituire (ma ci vogliono benefattori…) una “cassa di solidarietà” per finanziare le multe che dovessero arrivare a chi è finito nella rete con un centro? Usare le stesse armi in funzione ostruzionistica, pur correndo il rischio di darla vinta ai censori? Utilizzare un codice cifrato? O ancora, istituire una “due giorni” di notizie anti-bavaglio, impegnandoci tutti in una sorta di monitoraggio a tempo che impedisca quantomeno al centro di coglierci alla sprovvista? O magari innescare una spirale senza fine, pubblicando ulteriori commenti sulle rettifiche insieme alle rettifiche stesse, in attesa di una nuova richiesta? Prima o poi si stancheranno… e di fatto, non violeremmo lo spirito della legge, che istituisce un vero atto di tortura, costringendo i bloggers a non dormire per 48 ore.

E così via. L’unico effetto positivo di questo decreto è che in fondo potrebbe contribuire a edificare davvero, sia pure come forma di resistenza alla censura, quella “comunità virtuale” insita nella rete senza centro (ne parlano Aime e Cossetta in un recente saggio pubblicato da Einaudi) dalle potenzialità ancora sconosciute. Chissà che il centro non riesca, contro il suo stesso volere, a partorire una rete pronta davvero a ribellarsi.

lunedì 26 luglio 2010

Il destino dell'antagonista"vincitore"


26/7/2010
Il destino dell'antagonista "vincitore"
La Stampa

GIANNI VATTIMO
Il fatto che i Ditirambi di Dioniso - l’unica raccolta poetica che Nietzsche abbia progettato di pubblicare come libro a parte, e che uscì poi postuma - siano quasi ignorati o comunque assai poco discussi dalla letteratura filosofica, e invece oggetto di attenzione da parte dei musicisti (a iniziare da Richard Strauss e dal suo Poema sinfonico su Così parlò Zarathustra), è un altro dato emblematico della contraddittoria fortuna del filosofo come «rivoluzionario della cultura».

Il nome di Dioniso collega queste poesie alla prima grande opera nietzschiana, La nascita della tragedia, in cui il poco meno che trentenne professore di filologia classica annunciava il suo progetto di rinnovamento «wagneriano» della decadente civiltà europea ormai dominata dal razionalismo socratico e dalla incipiente organizzazione totale della società industriale.

Quel progetto - ripresa della creatività perduta con il distacco dal mito preclassico che si celebrava nelle feste dionisiache da cui era nata la tragedia greca - accompagna in forme diverse tutta la carriera filosofica di Nietzsche, nonostante la delusione e il distacco da Wagner cominciati proprio con la nascita del Festival di Bayreuth, e culmina nel finale grande attacco al Cristianesimo riassunto nel motto «Dioniso contro il Crocifisso». Un attacco che, emblematicamente, rivive oggi, come a Bayreuth, solo in un festival. Ma il destino dell’antagonista «vincitore» è poi tanto diverso?
Si veda inoltre: Salisburgo, così cantò Zarathustra, di Giorgio Pestelli.

giovedì 22 luglio 2010

Interrogazione sull'insostenibilità economica e ambientale delle reti transeuropee ad alta velocità

15 giugno 2010
E-4145/2010
Interrogazione con richiesta di risposta scritta alla Commissione
Articolo 117 del regolamento
Catherine Grèze (Verts/ALE), Sonia Alfano (ALDE), Joe Higgins (GUE/NGL), Luigi de Magistris (ALDE), Gianni Vattimo (ALDE) e Eva Lichtenberger (Verts/ALE)

Oggetto: Insostenibilità economica e ambientale delle reti transeuropee ad alta velocità (RTE-T) e necessità di un vero dibattito pubblico a livello dell'Unione europea
La Commissione europea promuove il trasporto ferroviario nell'UE mediante i progetti della RTE-T con l'assegnazione di contributi finanziari consistenti agli Stati membri.
Diversi studi indipendenti hanno mostrato che, per quanto riguarda la realizzazione e gestione delle linee ferroviarie ad alta velocità, il rapporto costi/efficacia non è positivo senza il sostegno pubblico concesso dall'UE e dallo Stato membro in cui è realizzata una di queste linee.
La modernizzazione, la manutenzione e l'ottimizzazione delle linee ferroviarie esistenti rappresentano le alternative più accettabili sul piano ambientale e dei costi.
Il libro verde sul futuro della RTE-T ha previsto una consultazione che si è conclusa il 30 aprile 2009 senza che i cittadini interessati e le relative associazioni o movimenti abbiano potuto prendervi parte.
I dibattiti pubblici svoltisi in Francia presentavano dati erronei in termini di traffico (sovrastimato) e di finanziamenti (sottostimati): ciò ha totalmente falsato le discussioni sulla possibilità di costruire nuove linee. È in corso una consultazione pubblica per quanto riguarda la parte italiana del progetto prioritario n. 6 Lione-Torino. I cittadini e le istituzioni (comuni e comunità montane) che non si sono precedentemente dichiarati a favore della realizzazione dell'opera sono stati esclusi dal dibattito. Quindi, la partecipazione del pubblico prevista dalla convenzione di Aarhus, laddove tutte le opzioni e le soluzioni sono ancora possibili, non è stata rispettata.
1. È la Commissione al corrente del fatto che la realizzazione delle linee ferroviarie ad alta velocità è insostenibile per l'Unione europea e gli Stati membri, dai punti di vista economico e ambientale, perché non genera competitività, risparmio energetico e non riduce le emissioni di CO2, bensì aumenta queste ultime, incrementa il debito pubblico e addossa costi impropri sugli utenti e sui contribuenti?
2. In che modo intende la Commissione europea procedere alla realizzazione di tali linee ferroviarie in mancanza di un vero dibattito democratico a livello locale nell'Unione e negli Stati membri?
3. Ritiene la Commissione necessario avviare un dibattito pubblico europeo uniforme sul modello di trasporto e di sviluppo sociale dei territori sottostante allo sviluppo delle linee ad alta velocità (LGV)?

lunedì 19 luglio 2010

Contragolpe con Enrique Dussel y Gianni Vattimo-V Foro Internacional de Filosofía Caracas

http://vtv.gob.ve/videos-emisiones-anteriores/39352

Los filósofos Enrique Dussel y Gianni Vattimo, ponentes en el V Foro Internacional de Filosofía que se realiza en Venezuela del 7 al 14 de julio, conversaron con la periodista Vanessa Davies sobre los planteamientos ideológicos de la izquierda Latinoamericana en el siglo 21.

"Ser de izquierda hoy es tratar de limitar los daños"

Entrevista con Gianni Vattimo
"Ser de izquierda hoy es tratar de limitar los daños"
LA NACION, 19.07.2010

Lúcido y provocador, el reconocido filósofo y político italiano afirma que, en la actualidad, el progresismo es una fuerza conservadora que defiende la democracia liberal al contener el capitalismo salvaje y la reducción de libertades, y si bien se define como "bastante chavista", asegura que no trasladaría a Europa esa experiencia política
Ricardo Carpena

Cómo se dice "políticamente incorrecto" en italiano? Gianni Vattimo. Podría ser un chiste, pero es casi un ejercicio de realismo: a contramano de una mayoría que cree en valores como la democracia republicana, la paz social y la libertad individual, este filósofo posmoderno y eurodiputado de izquierda entrega algunas definiciones por las que en muchos países sería quemado en una hoguera (o sobre los restos del Muro de Berlín). Por ejemplo: "No soy tan fetichista de la democracia formal"; "Puedo tolerar cierta reducción de libertades civiles"; "Justifico un régimen autoritario porque soy realista"; "Lo importante es que la violencia política se limite a lo indispensable"; "Si tengo que tener un caudillo prefiero a Chávez antes que a Berlusconi"; "Estoy contra la tortura, pero matar a Bush cuando hacía la guerra no me parecía mal".
Irreverente y apasionado, tan cristiano como comunista y militante homosexual, Vattimo volvió a Buenos Aires para participar en el seminario "La Argentina y el mundo", organizado por la Fundación Universitaria del Río de la Plata (FURP) con motivo de sus 40 años de actividad. Y accedió a una entrevista con Enfoques horas antes de volar a Caracas, donde participó en un foro internacional de filosofía organizado por el gobierno de Venezuela, del que se declara un gran admirador.
"Soy bastante chavista", reconoce al defender su tesis de que Europa debe mirar hacia América latina porque regímenes como el bolivariano, el de Lula en Brasil, el de los Kirchner en la Argentina y el de Rafael Correa en Ecuador, entre otros, "tienen una energía democrática como no se ve en ninguna otra parte del mundo".
"En Europa tenemos constituciones democráticas e incluso tenemos recursos -agrega-, pero hay como una situación de inmovilidad que se sufre muchísimo. No pasa nada. Hay una permanencia de la clase dominante que garantiza estabilidad incluso a través del juego con la oposición."
El autor del llamado "pensamiento débil", como contracara del pensamiento fuerte que admite una sola verdad, nació en Turín en 1936 y es un personaje que no pasa inadvertido. Profesor universitario, diputado del Parlamento Europeo, reconocido por varias obras sobre Nietzsche y Heidegger, pero también por artículos que escribe para diarios como La Stampa y L´Unità.
Esa condición de intelectual metido en la política le da cierta licencia hasta para contradecirse, para no llevar sus propios dichos hasta las últimas consecuencias. Por ejemplo, como seguidor de Chávez y de Fidel Castro mostró algunos límites, evidentes cuando admitió que los estándares de libertad de Europa impedirían trasladar a Italia una experiencia similar al chavismo.
Al final de la charla, Vattimo se lamentó de que no tiene mucho tiempo libre (y de que el poco que tiene lo dedica a leer novelas y a cuidar a su gato), aunque confesó cómo es su tarea de diputado: "No se trabaja, no se hace nada. Se va al Parlamento porque se necesita estar allá. Uno interviene una vez por mes, o cada tres meses, pero el resto es trabajo en comisiones, leer documentos".
-¿Por qué usted insiste tanto en que Europa debe mirar hacia América latina?
-Sobre todo porque conozco Europa. Desde aquí esto parece una suerte de mitología, pero lo que se ve desde Europa es que en América latina pudieron cambiar cosas en los últimos años. Cambió con la victoria de Lula, con la situación en la Argentina, con Correa, con el mismo Chávez... Soy bastante chavista. Es que aquí algo pasa desde el punto de vista de la democracia sustancial, la gente participa más. ¿Por qué soy chavista? Porque en Venezuela hay una gran participación ciudadana. El otro día he discutido con Roberto Mangabeira Unger, un profesor brasileño, que habla en uno de sus libros de una democracia de "fuerte energía": veo hoy en algunos países de Latinoamérica una energía democrática como en ninguna otra parte del mundo. China y la India son lo que son, pero lo son desde un punto de vista económico, que quizá explota también las injusticias de la sociedad. Porque en la India los niños trabajan, pero la sociedad de castas todavía existe. Por acá no es un fenómeno de desarrollo económico, sino sobre todo político: el desarrollo de Brasil incluye una reducción de la pobreza, etcétera. En Europa tenemos constituciones democráticas e incluso tenemos recursos, pero hay como una situación de inmovilidad que se sufre muchísimo. Hay una permanencia de la clase dominante que garantiza estabilidad incluso a través del juego con la oposición. La izquierda italiana es un ejemplo. Está más a la izquierda que Berlusconi, pero hoy si ganara las elecciones el Partido Demócrata, ¿qué haría? Una política sindical un poco diferente, sí... ¿Y? Esto no depende de los individuos, sino de un sistema. Incluso la Unión Europea funciona como una agencia de estabilización de la situación tal como es.
-¿Y cómo se lleva con la faceta menos amable de estos gobiernos en América latina? Porque también a Chávez, a Correa y a los Kirchner se les atribuyen problemas vinculados con restricciones a ciertas libertades, con algunas formas más autoritarias.
-Ya no soy tan fetichista de la democracia formal. Porque la democracia formal en Italia, por ejemplo, se basa en el hecho de que si tienes dinero para pagar la propaganda, ganas las elecciones. Hay situaciones, no digo de guerra, pero sí de conflicto, de contraste muy pronunciado, en donde no se puede imaginar hacer todo con el respeto de todos, de cierta cantidad de personas, de cierta cantidad de votos. Lo que se reprocha a Chávez es el intento de seguir estando en el gobierno, pero ha sido votado... El mismo Fidel Castro ha aconsejado en una carta a Evo Morales que respete los mecanismos electorales. Para alguien de quien se dice que es un dictador es muy extraño, ¿no? Puedo tolerar cierta reducción de libertades civiles. Pensando que en Cuba, principalmente, se está todavía en una guerra, la guerra contra los Estados Unidos. Y los cubanos toleran esto porque saben lo que pasaba antes con [Fulgencio]Batista. Hago esta comparación que no es muy luminosa para Cuba, pero cuando en Italia el fascismo fue golpeado por sanciones dispuestas por los ingleses, que nos impedían importar café, por ejemplo, mi mamá, que era una señora de casa, no gritaba en contra del fascismo sino en contra de los ingleses que nos imponían el sistema. En Cuba, ¿quién es el responsable de muchísimos de los males? Son los norteamericanos.
-"A veces un régimen autoritario permite a los desarraigados acceder a la política y luchar contra sus carencias". Lo dijo usted en una entrevista. Me sorprende porque la justificación del autoritarismo no es políticamente correcta para lo que uno espera de un intelectual.
-Es complicado, pero cuando yo lo justifico soy bastante realista. No me imagino que la Revolución Francesa se hubiera podido hacer con mecanismos democráticos. ¿Iban a hacer un referéndum para ver si el rey tenía que ser o no ejecutado? Alguien lo decide. Después, todo sigue. Lo importante es que la violencia política se limite a lo indispensable y que se rescate después con la formalización de las relaciones legales, civiles, etcétera. Si no, no hay manera de salir... Lo que pasa también en las democracias occidentales es que se desarrolla cierto tipo de caudillismo y triunfa con caudillos que no han ganado su autoridad a través de la guerra -como Fidel-, sino que solamente la pagan, como Berlusconi, con todas sus propiedades... Si tengo que tener un caudillo, prefiero a Chávez antes que a Berlusconi...
-¿Qué piensa de los Kirchner?
-De los Kirchner, no sé... La imagen que un europeo medianamente informado se hace de Latinoamérica es que están Lula, los Kirchner, Chávez, Fidel, Correa, el uruguayo [por Pepe Mujica]... Que son nuevos líderes, de alguna manera más democráticos, que permiten mucho. Sólo hace un año o dos, viniendo a la Argentina, he descubierto que los Kirchner son peronistas...
-¿No le parecían peronistas?
-No, me parecían de izquierda. Las personalidades y las decisiones sociopolíticas oscurecen un poco el problema de la proveniencia. Ahora tenemos en Italia al presidente de la Cámara Baja, Gianfranco Fini, un ex fascista que se opone a Berlusconi, por razones de poder seguramente, pero la izquierda lo llama "el compañero Fini"...
-Es difícil trasladar alguno de estos fenómenos latinoamericanos a Europa, o específicamente a Italia, por ejemplo, porque allí hay un estándar de libertades individuales y de respeto por ciertas formas democráticas. No veo hoy un Chávez aceptado por los europeos.
-No trasladaría al chavismo a Italia, ni siquiera a Castro, por muchos motivos. En estos temas siempre se corre un poco el riesgo de ser como los ingleses en el período fascista italiano: "Para nosotros, no -decían-, pero para los italianos..." No quiero hacer lo mismo, pero si hago una comparación entre lo que pasaba antes con Batista en Cuba o lo que pasaba antes en Venezuela, en Bolivia, algo cambió. No pensaría en abolir las elecciones en Italia, pero sí, por ejemplo, en reducir un poco el poder del dinero sobre las elecciones.
-Gobiernos europeos de izquierda están aplicando planes de ajuste como se aplicaban acá en la Argentina o en América latina. ¿Es el peor desafío para la izquierda?
-Hay una necesidad de pragmatismo que asusta un poco. El problema del ajuste es que la crisis no fue tomada bastante en serio, es decir, como una oportunidad de cambiar de sistema. Por ejemplo, cuando la crisis empezaba, la presidenta de los industriales italianos, Emma Marcegaglia, dijo que era importante que el gobierno interviniera en los bancos. Y agregó: "Cuando se haya restablecido la normalidad, nosotros volveremos". Es decir, cuando los empresarios puedan ganar una vez más... Esta es un poco la actitud...
-No creo que sea muy fácil ser de izquierda con la mentalidad más conservadora que predomina en toda crisis económica y como la que sufre Europa, ¿no?
-Ahora, una política de izquierda es la de limitar los daños, es como en el caso de las drogas.
-¿Eso es ser hoy de izquierda?
-Sí, limitar los daños del desarrollo salvaje, de la reducción de libertades individuales. Por eso, paradójicamente, los partidos de izquierda son los más conservadores, porque intentan defender la Constitución italiana, las leyes. La democracia liberal se defiende sólo con medidas socialistas, como en el caso de los bancos. Se trata de hacer una gran política de izquierda para defender un poco de estructura de tradición liberal europea.
-¿En qué medida la filosofía lo ha ayudado en su actividad política?
-Me ha dañado... (Risas.)
-Por lo menos lo ha ayudado a definir que quiere el regreso del comunismo.
-Este regreso al comunismo de mi parte es muy filosófico. Es decir, un comunismo no cientificista como el de Marx, no con el ideal de un sistema sin clases, pero sí con mucho control, con mucha participación ciudadana. No estoy hecho para vivir en una situación de estabilidad, sino en una revolución permanente. Bueno, algunos tragos de buen vino puedo tomar... (Risas.)
-¿Sigue pensando que "la idea de paz social es una idea de muerte"?
-Sí, porque es una idea básicamente liberal. La sociedad liberal vive básicamente de conflictos. Hubo un gran pensador liberal italiano que murió bajo el fusil, Piero Gobetti, que no pensaba tanto en la paz social sino en el desarrollo, en la sociedad, de conflictos que se arreglan y no dan lugar a una guerra de todos contra todos. Cuando uno sale de una guerra desea sólo la paz, pero cuando uno vive en una paz ambigua como esta en la cual estamos nosotros, tal vez dice: "Que se mueva algo, que pase algo".
-No es malo el conflicto en sí mismo.
-No, dentro de límites humanos. Pero los límites humanos... yo estoy contra la tortura, por ejemplo, pero matar a [George] Bush cuando hacía la guerra no me parecía un gran mal.
-¿Su formación religiosa lo ha limitado para reflexionar, para desarrollar sus teorías?
-Empecé a estudiar filosofía cuando tenía 18 años. Era un dirigente de la Acción Católica al que le interesaba hacer política y religión. He sido lo que en italiano se llama un "cato-comunista", es decir, un católico con simpatías de izquierda. Ahora mismo cuando digo que soy comunista es porque soy cristiano. Si no fuera cristiano no tendría ninguna razón para ser comunista. No tendría razón para preocuparme por el prójimo, por ejemplo.
-¿Y esa formación religiosa le ha ocasionado alguna vez debates o replanteos internos por su fuerte militancia homosexual?
-Me ha generado, sobre todo, problemas de estómago. En los años sesenta era muy difícil no hacerse problema por esto, pero ahora se ha vuelto una moda: para ser revolucionario hoy hay que ser heterosexual (risas). Este es un punto doloroso de la relación con la Iglesia, porque adopta como naturales cosas que son culturales. Porque, en la Biblia, las páginas del Antiguo Testamento donde se prohíbe la homosexualidad son las mismas donde se dice que hay que lavarse las manos bien, no comer pequeñas serpientes... Todo esto es el punto del autoritarismo de la Iglesia, que se hizo siempre en función de la preservación de la paz social. Aceptamos, tenemos juntos los pedazos del Imperio Romano, no todo debe volverse sangriento. Buenísimo, pero que no se pretenda que esta es la ley natural. Entonces este problema de la homosexualidad ha devenido el punto por el cual soy un católico disidente.
-Aquí en la Argentina hay un debate sobre el matrimonio entre homosexuales, que se acaba de transformar en ley, y la adopción por parte de las parejas gay.
-Sí, lo he leído. En Italia no se puede ni siquiera discutir. Ni en toda Europa... Hay buenas razones para no desear que se compare una unión homosexual con una heterosexual. Solamente porque la familia no es un gran valor: vamos a crearles a los pobres homosexuales los mismos problemas que tienen los heterosexuales... (Risas.)
-Los queremos arruinar, claro...
-Grandes autores como [Pier Paolo] Pasolini siempre han vivido su propia homosexualidad como un hecho revolucionario. Por otro lado, hay problemas de tipo muy práctico, como la herencia. En cuanto a la adopción, una pareja homosexual vale tanto como una pareja heterosexual. Porque hay ideas seudopsicoanalíticas en donde se dice que falta la figura del padre... Yo no he conocido a mi padre, que murió cuando tenía un año y medio, y la réplica que me podrían hacer sería: "Ves, te has convertido en homosexual..." Me parece una forma de naturalismo seudopsicológico que no tiene muchas razones.
© LA NACION
MANO A MANO
"A usted le gusta tener fama de transgresor, ¿no?", le dije a Gianni Vattimo al final de la charla, cuando nos despedíamos, luego de que había rememorado la época en que ser homosexual era revolucionario. Sólo se sonrió como si hubiera descubierto su principal secreto y me palmeó el hombro. Pero esos gestos fueron contundentes. En varios tramos de la entrevista me dio esa sensación: la de un intelectual de pensamiento irreverente, revulsivo por momentos, pero que se divierte con el efecto que provocan sus ideas y no tanto con su aplicación. Admira a la nueva izquierda latinoamericana, pero no cree posible mudar las franquicias chavistas (tan proclives al autoritarismo) a Europa. Cree en el retorno del comunismo, pero lo propone más como un ejercicio filosófico. Aun así, me dio la sensación de ser un pensador honesto, auténtico aun en los pliegues de algunas definiciones polémicas. Justificar los regímenes autoritarios, la reducción de ciertas libertades o el hipotético asesinato de George W. Bush no es nada fácil. Pero una de las cosas que más me sorprendieron fue que un intelectual como Vattimo haya pensado que los Kirchner no eran peronistas, sino de izquierda.

“Sus líderes están del lado de los pobres”

Entrevista: Gianni Vattimo, el filósofo que hace política, analiza a Latinoamérica
“Sus líderes están del lado de los pobres”
El Argentino.com

08-07-2010 / Es uno de los pensadores más lúcidos de los últimos tiempos. Comunista, católico y homosexual, ahora también se define como chavista. Qué son las “democracias de alta energía”.
Por Tali Goldman

Es impresentable.” Así lo definen –picardía mediante– quienes intentan desacreditar a uno de los principales filósofos contemporáneos, que está muy lejos del estereotipo de su profesión. Es comunista, aunque católico y homosexual militante. Anarquista, aunque partidario activo y miembro del Parlamento Eurolatinoamericano. Fiel a la Iglesia, aunque de pensamiento posmoderno y revolucionario, Gianni Vattimo es una marca registrada. “Soy un filósofo italiano que hace un poco de política en el Parlamento”, disparó el simpático pensador, en un español con fuerte acento “tano”.Vattimo es uno de los pensadores europeos más lúcidos de los últimos tiempos. Nacido en Turín en 1936, se desarrolló académicamente como filósofo influenciado por los pensamientos de Heidegger y Nietzsche, y disertó con sus coetáneos Rorty y Habbermas, entre otros. Profesor en algunas de las universidades más prestigiosas del mundo, dio sus primeros pasos en política como miembro del Partido Radical, más tarde en la coalición Alianza por Turín, y en 1999 fue electo diputado por el Partido Demócrata de Izquierda en el Parlamento de Estrasburgo. En 2004, rompió con ese partido y desde entonces es un miembro del Parlamento Europeo por el Partido de los Comunistas Italianos.
Su bibliografía abarca numerosos conceptos relevantes que fueron muchas veces el centro del debate académico: posmodernismo, religión y naturaleza, ecología, pensamiento débil y democracia. Sin embargo, en su último libro, Ecce Comu, el filósofo repiensa la categoría de “comunismo” del siglo XXI, haciendo foco, sobre todo, en las sociedades latinoamericanas. El fenómeno del socialismo en los diferentes países de la región, sobre todo en Venezuela, Bolivia y Ecuador, es analizado positivamente por Vattimo. Cuando en abril pasado fue invitado por la Universidad de Quito, afirmó: “En el mundo se necesita un cambio revolucionario que tendrá que protagonizar Latinoamérica, porque Europa aún tiene las cadenas del pasado”.
De visita en la Argentina, invitado por la Fundación Universitaria del Río de la Plata (FURP) para su 40º aniversario, disertó en el marco del seminario internacional “La Argentina y el mundo” con el jurista y político brasileño Roberto Mangabeira Unger. Con la consigna “Crisis internacional: oportunidades y aprendizajes”, los intelectuales diseñaron sus lineamientos políticos, sociales y económicos mirando el pasado, replanteándose el presente y pensando en el futuro. De todo eso, también habló con Veintitrés.
–¿Por qué en Italia siguen eligiendo personajes de derecha como Berlusconi?
Berlusconi no está en el poder porque la gente lo ame. Aquellos que lo votaron lo hicieron porque él representa todo lo peor de los italianos: no paga los impuestos, es machista, está con la mujer que quiere (risas), y al parecer eso les atrae. Es electo sólo porque no hay mejores alternativas y la izquierda directamente no va a votar.
–¿Por qué?
El problema de la izquierda en Italia es que no puede gobernar. Olvidó su izquierdismo.
–¿Por qué cree que Europa debería mirar a Latinoamérica para salir de la crisis?
Pienso que Latinoamérica es el futuro de la nueva Europa. Tenemos valores y lenguas comunes y la tradición del derecho romano. Europa se está chocando con los límites de la modernidad y de la democracia formal. Esto me hace pensar que, como decía Churchill, “la democracia es un sistema horrible”. Es por eso que Europa necesita modelos diferentes para repensarse de manera independiente de Estados Unidos y de las empresas multinacionales. La democracia formal europea implica que los representantes que terminan siendo electos son los que tienen más dinero para pagar medios o para hacerse propaganda.
–Es decir que los líderes principales de la región están desarrollando un gran cambio de paradigma a nivel mundial.
Yo soy, irremediablemente, chavista. Lo que ha hecho Chávez en Venezuela es enorme, en especial todas las misiones de barrio adentro (N. de la R.: un programa social venezolano con ayuda del gobierno de Cuba que ofrece diversos servicios de salud y educación en las zonas más pobres del país). Lo que pasa es que, a los ojos del mundo euro-occidental, en Latinoamérica estamos frente a democracias endebles ya que no se rigen bajo los parámetros de la “democracia formal de tipo europeo”, entonces, indefectiblemente, la llaman dictadura. Pero Chávez se defendió de un golpe de Estado, ha hecho numerosos referendos y respeta las elecciones.
–Usted plantea que los países de América latina son democracias de “alta energía”. ¿Por qué?
–Como decía antes, creo que en Venezuela, por ejemplo, las misiones de barrio adentro son un claro ejemplo de una democracia de alta energía. Porque son sistemas que no están hechos para burócratas, sino para miembros del propio partido, es decir de los voluntarios que participan del trabajo social. Se trata de personas que voluntariamente ayudan en la salud, en la instrucción, etc. El mundo se está dividiendo en dos bloques: los pobres y los ricos. Y me parece que estos líderes latinoamericanos están del lado de los pobres, por eso constituyen democracias de “alta energía”.
–Otra de las chicanas utilizadas por el establishment es que en algunos países de la región no hay libertad de prensa.
–Exacto, se dice que en Venezuela no hay libertad de prensa. Sin embargo, en Caracas todos los periódicos están contra Chávez, porque son propiedad de los burgueses opositores. En Europa estamos intentando modificar una posición común sobre Fidel Castro. Porque la concepción popular es que Castro no es democrático porque las elecciones se hacen sobre listas que se determinan en grupos, en el barrio, etc. Esto es absolutamente legítimo y democrático.
–En la Argentina se está por implementar la Ley de Medios Audiovisuales, que es muy criticada por la oposición. ¿Qué opina de ese debate?
–Me enteré de este tema cuando (Gabriel) Mariotto me vino a visitar a Italia. La pregunta es qué significa la libertad de prensa para los grandes monopolios que concentran los grandes poderes. Yo estoy a favor de esta ley y sobre todo de una televisión estatal. En Italia la televisión está dominada por los partidos políticos y por los magnates ricos.
–¿Cómo evalúa la gestión de Cristina Fernández de Kirchner?
–Me interesa mucho lo que está haciendo acá en la Argentina. He descubierto, la última vez que vine, que ella formalmente es una peronista. Incluso el peronismo, siguiendo con el hilo anterior, pone en tela de juicio si lo que discutimos tiene que ser en base a los criterios de las democracias occidentales anglosajonas o podemos discutir en otras claves, como las de América latina. El peronismo pone sobre la mesa la redistribución de la riqueza, el sentido por las clases pobres.
–Usted escribió varios libros sobre el tema de los recursos naturales y el poder. Actualmente en la Argentina es un tema central la explotación de petróleo en las Islas Malvinas. ¿Piensa que este conflicto con Gran Bretaña puede empezar a resolverse por una disputa ambiental?
–Hay un derecho de los pueblos a sus propios recursos. Creo que estos pueblos se tienen que reivindicar porque efectivamente son colonias. Yo ahora prefiero reconocer el derecho argentino porque los recursos naturales, en muchas partes de Latinoamérica, presentan problemas: el gas en Bolivia, el petróleo en Venezuela. En el momento de decidir, se involucran mucho las fuerzas y las opiniones políticas: ¿la Argentina tiene ahora influencia para imponerse ante Gran Bretaña, vale la pena una guerra?
–El Senado argentino se apresta a votar la ley de matrimonio homosexual. ¿Le genera cierta contradicción a usted, que es católico y militante por los derechos igualitarios?
–En la tradición religiosa hay numerosas historias homosexuales, como por ejemplo la del rey David y su amigo Jonathan. La religión no tiene nada contra la homosexualidad. Me parece que es muy importante que se esté llevando a cabo este debate. En Italia no estamos ni cerca de darlo n y

Il sangue gay e la società che vogliamo

Altro post per il mio blog sul sito de Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2010.


Il sangue gay e la società che vogliamo

L’Argentina autorizza le unioni omosessuali, primo paese dell’America Latina a farlo, decimo nel mondo. Noi no. Anzi, da noi alcuni ospedali, il più recente è il Gaetano Pini di Milano, hanno dichiarato di non accettare sangue da uomini dichiaratamente omosessuali. Sangue gay, mai e poi mai. Naturalmente hanno ragione Paola Concia, Livia Turco e Rosaria Iardino: il provvedimento sancisce una discriminazione in palese antitesi con la costituzione, che nessun fondamento scientifico è in grado di giustificare. Come ho scritto recentemente per l’Espresso, non sono certo un difensore della famiglia cosiddetta naturale, piena di seconde mogli e tradimenti. È dunque giusto ricordare che il rifiuto del sangue gay si accompagna alla tolleranza per il sangue etero di chi, magari in barba ai questionari sottoscritti prima delle donazioni, ha rapporti non protetti di ogni tipo, frequenta prostitute e prostituti, ecc. C’è però anche un’altra questione della quale occorrerebbe tenere conto.
Nel 1970, Richard Titmuss, scienziato sociale del welfare state, per così dire, scriveva un fortunato libro, The Gift Relationship, sul dono del sangue. Titmuss sosteneva che il sistema di dono del sangue vigente in Gran Bretagna fosse superiore, anche economicamente, a quello americano, che invece prevedeva la libera vendita del sangue. Al di là dei dati e delle argomentazioni tecnico-economiche, Titmuss si scagliava contro il sistema di commercializzazione del sangue sostenendo che il libero mercato avrebbe “eroso il senso di comunità” promosso invece dal dono del sangue, e che – contrariamente a quanto penserebbe un economista doc – avrebbe limitato la libertà di scelta di chi offre sangue (un donatore non dona, in un sistema nel quale la regola è il commercio). Il libro suscitò ampie polemiche: l’economista Kenneth Arrow, premio Nobel per l’Economia 1972, intervenne criticando Titmuss per sottolineare come il meccanismo di mercato sia di fatto da apprezzare proprio perché aumenta le possibilità di scelta (si pensi al dibattito sulle economie un tempo pianificate del blocco sovietico). L’altruismo è una risorsa scarsa: laddove è possibile, meglio contare sul sistema di prezzi e sulla legge della domanda e dell’offerta. Alla recensione di Arrow fece seguito quella del bioetico Peter Singer (che non smise mai di far riferimento, nelle sue opere di maggior successo, al libro di Titmuss), secondo il quale Titmuss aveva correttamente posto un problema di enorme significato: lo scontro tra sistema di dono e sistema di commercializzazione non avviene tanto sul piano dell’efficienza economica e su quello della sicurezza delle trasfusioni (certo, l’affaire du sang era ancora da venire), spiegava Singer. La vera posta in gioco era: che tipo di società vogliamo? Una nella quale il senso di comunità è sacrificato sull’altare di una presunta maggiore libertà (intesa in senso economico), o una che invece lo promuove proprio stimolando la libertà del cittadino di compiere una scelta, quella di donare il proprio sangue, e dunque di segnalare la volontà di partecipare a una comunità solidale anziché a un mercato che risparmia l’altruismo?
Tutto ciò per dire che la questione del sangue gay non è solo un problema di maggiore o minore sicurezza sanitaria. Per certi versi, quella di oggi è una riproposizione dell’antico dibattito, anche se ben più sgradevole. A meno che siano disponibili – cosa della quale, come detto, dubitiamo fortemente – dati che dimostrano inequivocabilmente la “superiorità”, in termini di sicurezza, del sangue etero (e anche in questo caso il problema rimarrebbe), non sarebbe il caso di riflettere sulla restrizione di un diritto, il diritto dei gay a donare sangue, e a manifestare la loro scelta per una società solidale e tollerante? Il Gabriele che ha segnalato il caso, vedendo rifiutato l’offerta del proprio sangue, esprime in fondo il disappunto per la limitazione del suo diritto a donare. E con tutta probabilità, ogni donatore, gay o etero, sente oggi come Gabriele, che il tipo di società verso la quale stiamo andando non è quella alla quale vorremmo partecipare.
Gainni Vattimo

venerdì 16 luglio 2010

Vattimo, Huésped de Honor

Publicación: 05/07/2010
Temática: Politica
DE LA CIUDAD (Buenos Aires)
Vattimo, Huésped de Honor
El filósofo italiano Gianni Vattimo recibió en la tarde de este lunes, de manos del Vicepresidente I de la Casa, Oscar Moscariello, la distinción en el Salón Eva Perón. La declaración había sido aprobada en la sesión del 24 de junio.
Por Redacción de NU En un acto que se desarrolló en la tarde de este lunes 5, en la Legislatura porteña el filósofo italiano Gianni Vattimo recibió el diploma que lo acredita como Huésped de Honor de la Ciudad de Buenos Aires.
La ceremonia fue organizada por la Subsecretaría de Fortalecimiento e Intercambio Institucional a cargo de Pablo Garzonio y contó con la presencia del Vicepresidente Primero, Oscar Moscariello, el Embajador de Italia en Argentina, Guido La Tella, y las diputadas Delia Bisutti (Proyecto Sur) y María José Lubertino (Encuentro Popular para la Victoria).
Moscariello sostuvo que "es un placer tener este evento en la Legislatura, recibir a una personalidad internacional como Gianni Vattimo pone en relieve a nuestra casa. Él desde el mundo académico ha hecho un gran aporte a la ciencia de todo el mundo. Su pensamiento y su obra son precursoras, además de su compromiso permanente en el mundo de la política que lo llevaron a representar a Italia en el parlamento europeo. Todas estas razones hacen que esta distinción de Huésped de Honor sea más que merecida". Posteriormente el embajador La Tella agradeció la distinción a su compatriota y lo destacó como un hombre de la cultura y de la política.
Finalmente, Vattimo afirmó "estoy emocionado por un reconocimiento de este tipo, tengo un profundo lazo con la Argentina más que con otros países europeos, soy como un ciudadano de la Argentina. Fue uno de los primeros países extranjeros donde se tradujeron mis libros, además de España. Tenemos afinidades de contenido cultural y políticas.
En Latinoamérica hubo grandes cambios en los últimos 20 años y en Europa no pasa nada. Ello constituye una esperanza para nuestro continente. Los líderes de América son figuras de un futuro que es probable que esté aqui". "La posibilidad de tenerlo en nuestro país y su participación en el Seminario Internacional 'Argentina y el mundo', llevado a cabo del 1 al 4 de julio en el marco del 40º Aniversario de la Federación Universitaria Rio de la Plata, es una oportunidad única para otorgarle el merecido reconocimiento como Huésped de Honor", sostuvieron los fundamentos de la declaración aprobada el 24 de junio último por iniciativa de los diputados Fernando de Andreis y Oscar Moscariello (PRO).
Diputado del parlamento europeo desde 2009, Vattimo nació en Turín (Italia) en 1936, estudió Filosofía en la Universidad de su ciudad natal y, posteriormente, realizó dos cursos en la Universidad de Heildelberg. Fue discípulo de Hans-Georg Gadamer. En 1964 comenzó la docencia de estética en la Facoltà di Lettere e Filosofia, de Turín, de la que llegó a ser decano. Su actividad filosófica está claramente influencia por los planteamientos de Nietzsche y Heidegger, autor este último que Vattimo ha traducido al italiano.
La actividad en el ámbito académico se desarrolló en forma creciente a lo largo de los años. Vattimo llegó a ser profesor visitante de las universidades norteamericanas de Yale, Los Angeles, New York University y State University de Nueva York, vicepresidente de la Academia de la Latinidade y recibió el reconocimiento como Doctor 'honoris causa' de las Universidades argentinas de Palermo y La Plata. Su colaboración en diversos diarios italianos, entre ellos La Stampa y L'Unità, reflejan un paso más en su carrera profesional.

Verità o fede debole?

Da Youtube, canale di Transeuropa libri:
Videoconferenza dal quale è tratto il volume di Girard e Vattimo, "Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo", Transeuropa Edizioni, 2006
Transeuropa ha in catalogo una collana dedicata a Girard, che presenta anche due testi di saggi inediti di René Girard ("Miti d'origine" e "Il pensiero rivale") e una collana ispirata dalle teorie dell'antropologo francese (La Realtà Umana).

Benedette radici

Benedette radici
di Gianni Vattimo

Il bel libro su papa Ratzinger del tedesco Alan Posener ("La crociata di Benedetto", Garzanti, pp. 214, euro 15,60), presenta un particolare interesse perché, piu di molti altri che si sono pubblicati in questi anni, ha il merito di collocare Benedetto XVI sullo sfondo della sua specifica cultura: ovviamente cosmopolita come quella di un grande teologo del nostro tempo, ma anche segnata da particolari caratteri legati all'ambiente di origine. Così, è illuminante il capitolo in cui l'autore ricostruisce l'idea ratzingeriana di democrazia richiamando l'influenza che ha avuto su di essa il pensiero di un cattolico tedesco, Ernest-Wolfgang Boeckenfoerde, il quale teorizza che uno stato democratico secolarizzato non si regge senza avere alla base una concezione normativa dell'uomo che esso stesso non può fondare né riconoscere.

È il concetto di un fondamento "prepolitico" della democrazia a cui spesso certo pensiero politico cattolico ricorre per giustificare le sue pretese di un riferimento a valori e principi che stanno al di sopra del potere di decisione di qualunque elettorato. È una tematica che recentemente è sembrata affascinare anche Habermas, e che contiene la base della "crociata" ratzingeriana contro la modernità e contro tutte le aperture del Concilio Vaticano II.

Non è dunque sorprendente la simpatia del papa per movimenti di comunitarismo cattolico come quello che l'autore illustra in uno dei capitoli conclusivi del libro: dove l'autorità della comunità non deriva dal consenso dei singoli, anzi si impone sopra e contro di loro, in nome di una legittimità proveniente solo dalla tradizione. Non è difficile vedere qui l'idea che guida Benedetto XVI non solo nella sua visione della società umana, ma anche nella sua pratica di supremo pastore della Chiesa.

L'espresso, 02 lug 2010

Liberismo e austerità, e l’Europa non va…


Riporto anche qui il post sulla Lettera degli economisti, apparso sul blog che tengo per Il Fatto Quotidiano.


Liberismo e austerità, e l’Europa non va…
Di rilievo, sulla stampa nazionale (e non solo), ne ha avuto molto, ma in pochi hanno commentato (se escludiamo i rodati lettori del Sole24ore) la “Lettera degli economisti” (http://www.letteradeglieconomisti.it/), sulla quale intendo dunque tornare proprio in questo blog.Non tanto per esprimere una mia opinione tecnica in proposito – non ne sarei in grado; osservo che sul sito noiseFromAmerika (http://www.noisefromamerika.org/index.php/articles/L), due economisti italiani che insegnano negli Stati Uniti, Alberto Bisin e Michele Boldrin, hanno attaccato pesantemente la lettera, ravvivando l’antico dibattito tra keynesiani, quelli della lettera, e non) – quanto per dare ai lettori del Fatto uno spazio per commentare l’iniziativa dei 100 e più economisti che hanno inviato quella lettera al governo e ai rappresentanti italiani presso l’Unione Europea.

Aggiungo però qualche riflessione in merito, quelle appunto di un non specialista. I 100 economisti si pongono essenzialmente contro le tante politiche di austerità che percorrono il quadro economico dell’Europa. La nuova austerity, spiegano, non farà che aggravare la crisi, e spingere gli stati più deboli, quelli più soggetti alla speculazione, al di fuori dell’euro. Una tesi che condivido, perché sono d’accordo sulle premesse: “Il punto fondamentale da comprendere è che l’attuale instabilità della Unione monetaria non rappresenta il mero frutto di trucchi contabili o di spese facili. Essa in realtà costituisce l’esito di un intreccio ben più profondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in seno alla zona euro, che derivano principalmente dall’insostenibile profilo liberista del Trattato dell’Unione e dall’orientamento di politica economica restrittiva dei Paesi membri caratterizzati da un sistematico avanzo con l’estero”.

Liberismo più austerità erano già lì, e ci hanno condotti al disastro. L’Europa è già il regno di quell’economia che si vuole legge naturale valida in ogni tempo e luogo, di quell’economia che si finge in grado di autoregolarsi. Sia perché questa è stata la scelta di fondo ai tempi della creazione del mercato unico – o forse questa è stata la direzione verso la quale si è spinto il progetto di costruzione europea –, sia perché i governi – non i mercati: Bisin e Boldrin ritengono invece che i 100 economisti intendano semplicemente sostituire il mito dello stato a quello del mercato – e in primis la Germania, nostro leader, hanno scelto, negli ultimi anni, di puntare appunto sulla restrizione, e cioè sul contenimento dei costi delle esportazioni (salari più bassi e smantellamento progressivo dello stato sociale), piuttosto che sulla crescita interna.

I 100 non sono gli unici a pensarla così: fior di economisti internazionali la vedono nello stesso modo (si leggano i tanti articoli in proposito proposti dal sito Project Syndicate, http://www.project-syndicate.org/series_s/1). Ma quello che mi preme sottolineare è che (per una volta?) gli economisti si siano anche posti, magari solo indirettamente, il tema della costruzione europea da un punto di vista non solo economico: se anche Bisin e Boldrin avessero paradossalmente ragione, e cioè, aggiungo io, se i keynesiani, per così dire, intendessero semplicemente riportare l’economia europea, anche ai tempi della crisi, nell’alveo di un più complessivo progetto d’integrazione sociale europea, un progetto che, scrivevo in tempi orami lontani, non può che essere di sinistra – promozione dei diritti civili, sociali, politici, modello sociale attento alla solidarietà tra classi e generazioni, difesa della qualità della vita –, non sarebbe già un enorme passo avanti? Se il liberismo – colpevole o meno che sia dell’attuale crisi – conduce diritto verso una sempre più insostenibile disuguaglianza di reddito, non sarebbe il caso di approfittare della crisi, se possibile, per invertire la rotta e ridiscutere i principi che hanno ispirato le politiche europee degli ultimi anni? In fondo, l’alternativa è che la crisi ci costringa a ridiscutere non solo le politiche, ma l’Europa stessa.

Gianni Vattimo

La Costituzione secondo Vattimo

La Costituzione secondo Vattimo
La Repubblica — 08 luglio 2010 pagina 15 sezione: NAPOLI
"Costituzione tra revisione e stravolgimento" è il titolo della tavola rotonda che si terrà domani alle 17 nella sede dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, in via Monte di Dio 14. All'incontro, organizzato dalla Società di studi politici presieduta da Massimiliano Marotta, parteciperà, insieme con Stefano Rodotà, Biagio de Giovanni e Gianni Ferrara, il filosofo Gianni Vattimo. «La Costituzione italiana - ha anticipato Vattimo - è una delle più giovani e complete, visto che si è fatta nel 1948, dopo la seconda guerra mondiale. Dunque da un punto di vista della struttura della Costituzione sia nei contenuti che nella forma è tra le migliori disponibili sul mercato, quindi l'idea di cambiarla è del tutto fuori luogo». «Anche per quanto riguarda l'ordinamento regionale - ha aggiunto il filosofo - credo che non ci sia niente da modificare. Piuttosto vanno applicate più attivamente quelle leggi che la Costituzione prevede e non ancora sono state contemplate del tutto. Mancano, ad esempio, quelle leggi tanto richieste dalle battaglie radicali sul ruolo e i compiti dei sindacati. Ma fondamentalmente la Costituzione va tenuta così com'è. Il problema è che c'è della gente che non la vuole rispettare». Il filosofo torinese non trascura l'analisi sulla realtà del mezzogiorno e di Napoli in particolare. «Ho sempre pensato che la classe dirigente legata all'esperienza bassoliniana fosse immune dal fenomeno corruzione così come invece avviene ovunque nel nostro paese. Al di là del clamore degli ultimi anni lo penso ancora. Ritengo che ci siano stati problemi sulla gestione della macchina regionale. Diciamo che a pelle, mi sono sempre fidato dell'amministrazione di Antonio Bassolino e del suo nuovo corso. A proposito invece della nuova classe dirigente, non li conosco o comunque non abbastanza per potere esprimere un giudizio». Info http://www.iisf.it/.
(manuela barbato)