Il quieto fallimento dell'Europa
Manca chi sappia condurla verso obiettivi ambiziosi
Manca chi sappia condurla verso obiettivi ambiziosi
FERNANDO SAVATER
In una delle opere più curiose e divertenti di Gioacchino Rossini, Il viaggio a Reims, un gruppo di cittadini di diverse nazioni europee che vogliono andare a Reims per un'importante incoronazione, si vedono costretti a sostare in una locanda e obbligati a una difficile convivenza perché mancano i cavalli per continuare il viaggio. Mi sembra che questo libretto sia un'eccellente metafora «avant la lettre» della situazione di parziale smarrimento vissuta attualmente dall'Unione Europea. Ai paesi dell'Europa non rimane altro da fare che restare uniti di fronte ai molti e fondamentali temi di carattere sociale, culturale ed economico, ma non sembrano in grado di fare un ulteriore passo in avanti e di procedere insieme verso obiettivi più ambiziosi e, a lungo termine, ugualmente necessari. Mancano, a quanto pare, gli imprescindibili cavalli di progetti comuni, non puramente accessori, e di convinzioni e valori democratici condivisi.
La recente elezione di Herman van Rompuy e di Catherine Ashton alle più importanti cariche della Ue indica in modo chiaro che i nostri Stati non sono disposti a scommettere su una leadership davvero forte per impostare un lavoro comune. Per non ricordare, oltre tutto, che il procedimento di cooptazione, improntato ad accordi segreti, con il quale costoro sono stati designati, è profondamente lontano da qualsiasi tipo d'elezione diretta da parte dei cittadini: l'unico sistema, cioè, che avrebbe potuto instaurare un legame forte tra i cittadini dell’Europa e quanti, grazie a criteri improntati a trasparenza, siano chiamati a rappresentarli come membri d'una comunità unita di fronte alle istanze proposte dall'Europa. (...)
Per molti spagnoli della mia generazione è difficile non considerare questa situazione come un quieto fallimento: una frustrazione. Chi di noi è stato giovane durante la dittatura franchista aveva un entusiasmo europeista, forse ingenuo, riassumibile nel giudizio attribuito al filosofo Ortega y Gasset: «La Spagna è il problema, l'Europa la soluzione». In realtà questa soluzione sembra essersi fermata piuttosto lontano dalle migliori aspettative che in essa erano riposte. Oggi ci rendiamo conto che l'Europa, l'Unione Europea, è una soluzione: non, però, qualsiasi Europa e qualsiasi unione, ma una capace di mettere insieme condizioni che, attualmente, sembrano seriamente compromesse se non definitivamente abbandonate.
Continuo a credere che l'Europa alla quale aspirare sia quella che difende e rappresenta i cittadini, non i territori; quella che protegge i diritti politici (anche i doveri, naturalmente) e le garanzie giuridiche, molto più dei privilegi e delle vuote tradizioni delle quali ci si serve per nasconderli agli occhi degli stranieri; l'Europa che mantiene l'integrità degli stati di diritto democratici attualmente esistenti a fronte delle rivendicazioni etniche, sempre retrive e xenofobe, che mirano alla disgregazione; l'Europa della libertà che va di pari passo con la solidarietà, non chiusa a chi, spinto dalla persecuzione politica o dalle necessità economiche, bussa alla sua porta; non blindata nei suoi benefici, ma aperta: ansiosa di collaborare, aiutare e condividere. L'Europa dell'ospitalità razionale.
Questa Ue ha bisogno di europeisti militanti, capaci di contrastare la miopia dei politici europei. In tutti i paesi - l'abbiamo visto nella Repubblica Ceca e in altre nazioni dell'Est, ma anche in Inghilterra, Irlanda e persino in Francia - nascono leader e gruppi nazionalisti, fautori d'un protezionismo rigoroso verso l'esterno e d'un liberalismo assoluto all'interno, con una mentalità da autentici hooligans di valori ipostatici che si rinchiudono nell'inamovibilità dei loro atteggiamenti più escludenti per lasciare «fuori dalla festa» tutto quel grande Altro di cui hanno paura. Vale a dire europei intransigenti solo per quanto è utile ai loro stretti (e assai cristiani, questo sì) interessi. Un integralismo che definisce le radici dell'Europa in un modo selettivo, privilegiando la prospettiva più conservatrice ed emarginante invece d'una tradizione che è ricca proprio grazie alla polemica interna alle sue contraddizioni.
Ma esiste anche un altro pericolo: quello della leggerezza della buona coscienza multiculturale che si oppone al cristianesimo escludente non in nome del laicismo democratico, ma per sostenere altri dogmi religiosi che vogliono imporre una pretesa superiorità anche nei confronti delle leggi civili e persino della visione occidentale dei diritti umani. L'Europa a cui aspirare è quella nella quale le credenze religiose o filosofiche siano un diritto di ciascuno e un dovere per nessuno, meno che mai un obbligo generale della società come insieme. Uno spazio politico radicale e, di conseguenza, laico - che non vuoi dire antireligioso - nei quale le norme civili si elevino al di sopra di qualsiasi considerazione fideistica, etnica o culturale e dove esista una netta distinzione tra quello che alcuni considerano peccato e quello che tutti dobbiamo considerare reato.
Un'Europa il cui spazio accademico e universitario consenta la mobilità professionale di studenti e professori, ma con un'università non asservita a interessi di imprese, di rendite immediate. L'Europa del talento senza frontiere, non delle nomine e del lucro. Certo, abbiamo bisogno di cavalli che ci portino, ma anche di aurighi che sappiano sin dove vogliamo andare. Io credo che siamo ancora in tempo.
La recente elezione di Herman van Rompuy e di Catherine Ashton alle più importanti cariche della Ue indica in modo chiaro che i nostri Stati non sono disposti a scommettere su una leadership davvero forte per impostare un lavoro comune. Per non ricordare, oltre tutto, che il procedimento di cooptazione, improntato ad accordi segreti, con il quale costoro sono stati designati, è profondamente lontano da qualsiasi tipo d'elezione diretta da parte dei cittadini: l'unico sistema, cioè, che avrebbe potuto instaurare un legame forte tra i cittadini dell’Europa e quanti, grazie a criteri improntati a trasparenza, siano chiamati a rappresentarli come membri d'una comunità unita di fronte alle istanze proposte dall'Europa. (...)
Per molti spagnoli della mia generazione è difficile non considerare questa situazione come un quieto fallimento: una frustrazione. Chi di noi è stato giovane durante la dittatura franchista aveva un entusiasmo europeista, forse ingenuo, riassumibile nel giudizio attribuito al filosofo Ortega y Gasset: «La Spagna è il problema, l'Europa la soluzione». In realtà questa soluzione sembra essersi fermata piuttosto lontano dalle migliori aspettative che in essa erano riposte. Oggi ci rendiamo conto che l'Europa, l'Unione Europea, è una soluzione: non, però, qualsiasi Europa e qualsiasi unione, ma una capace di mettere insieme condizioni che, attualmente, sembrano seriamente compromesse se non definitivamente abbandonate.
Continuo a credere che l'Europa alla quale aspirare sia quella che difende e rappresenta i cittadini, non i territori; quella che protegge i diritti politici (anche i doveri, naturalmente) e le garanzie giuridiche, molto più dei privilegi e delle vuote tradizioni delle quali ci si serve per nasconderli agli occhi degli stranieri; l'Europa che mantiene l'integrità degli stati di diritto democratici attualmente esistenti a fronte delle rivendicazioni etniche, sempre retrive e xenofobe, che mirano alla disgregazione; l'Europa della libertà che va di pari passo con la solidarietà, non chiusa a chi, spinto dalla persecuzione politica o dalle necessità economiche, bussa alla sua porta; non blindata nei suoi benefici, ma aperta: ansiosa di collaborare, aiutare e condividere. L'Europa dell'ospitalità razionale.
Questa Ue ha bisogno di europeisti militanti, capaci di contrastare la miopia dei politici europei. In tutti i paesi - l'abbiamo visto nella Repubblica Ceca e in altre nazioni dell'Est, ma anche in Inghilterra, Irlanda e persino in Francia - nascono leader e gruppi nazionalisti, fautori d'un protezionismo rigoroso verso l'esterno e d'un liberalismo assoluto all'interno, con una mentalità da autentici hooligans di valori ipostatici che si rinchiudono nell'inamovibilità dei loro atteggiamenti più escludenti per lasciare «fuori dalla festa» tutto quel grande Altro di cui hanno paura. Vale a dire europei intransigenti solo per quanto è utile ai loro stretti (e assai cristiani, questo sì) interessi. Un integralismo che definisce le radici dell'Europa in un modo selettivo, privilegiando la prospettiva più conservatrice ed emarginante invece d'una tradizione che è ricca proprio grazie alla polemica interna alle sue contraddizioni.
Ma esiste anche un altro pericolo: quello della leggerezza della buona coscienza multiculturale che si oppone al cristianesimo escludente non in nome del laicismo democratico, ma per sostenere altri dogmi religiosi che vogliono imporre una pretesa superiorità anche nei confronti delle leggi civili e persino della visione occidentale dei diritti umani. L'Europa a cui aspirare è quella nella quale le credenze religiose o filosofiche siano un diritto di ciascuno e un dovere per nessuno, meno che mai un obbligo generale della società come insieme. Uno spazio politico radicale e, di conseguenza, laico - che non vuoi dire antireligioso - nei quale le norme civili si elevino al di sopra di qualsiasi considerazione fideistica, etnica o culturale e dove esista una netta distinzione tra quello che alcuni considerano peccato e quello che tutti dobbiamo considerare reato.
Un'Europa il cui spazio accademico e universitario consenta la mobilità professionale di studenti e professori, ma con un'università non asservita a interessi di imprese, di rendite immediate. L'Europa del talento senza frontiere, non delle nomine e del lucro. Certo, abbiamo bisogno di cavalli che ci portino, ma anche di aurighi che sappiano sin dove vogliamo andare. Io credo che siamo ancora in tempo.
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