Vattimo, dialoghi sull’Apocalisse
Soltanto l’Europa si sente al tramonto
La Repubblica - Torino, 28 settembre 2011. Di Enzo Carnazza
Torino Spiritualità 2011, tema: il senso della Fine, del
limite; il bisogno e la paura di un'Apocalisse intesa come rivelazione dei
tempi ultimi. Ne parliamo con Gianni Vattimo, filosofo, docente universitario e
parlamentare europeo.
Non è significativo che proprio in questo momento,
caratterizzato da crisi finanziarie e sociali molto serie, si torni a parlare
di Apocalisse, sia pure nei termini filologici di Rivelazione più che nel senso
corrente di catastrofe attesa?
«Ci si chiede: ha senso parlare in questi termini oggi? E
che cosa dobbiamo ricavare da questo modo di vedere il mondo? In realtà non mi
stupisce affatto che si parli del nostro tempo in termini escatologici. Le
epoche che avvertono il cambiamento si sentono sempre tutte all'ultima
spiaggia. Non si sa dove si vive, non si in quale direzione ci si muove. Per
questo ci si sente apocalittici. D'altra parte, non è una novità. Dal 1945 al
1955 il mondo ha vissuto sotto l'incubo della bomba atomica e la sensazione di
una fine vicina non era affatto meno acuta. Negli Anni Novanta del secolo
scorso accadde la stessa cosa. È una caratteristica della modernità. Quando i
tempi cambiano velocemente, per le scoperte scientifiche per esempio, accade di
sentirsi inadeguati».
Non solo paura, ma anche bisogno di cambiamento, allora.
«Certamente. E infatti tanto più constatiamo l'assenza di
cambiamento, tanto più vengono esasperati i termini escatologici di cui
parlavamo. Perché la verità è che non cambia mai niente. Guardi, quando mi
assento dall'Europa magari per una settimana senza la possibilità di leggere i
giornali, torno e trovo tutto esattamente come prima. Il tempo sembra scorrere
rapido, ma in realtà il cambiamento non c'è».
La svolta che non c'è ne rende urgente il bisogno?
«Da cultore di Heidegger, sostengo che l'Essere ti cambia.
Ma non c'è nessun Evento in grado di cambiare la nostra vita».
Non c'è qualche cosa di specifico nel senso di
smarrimento dei giorni nostri, soprattutto se confrontato con le paure della
metà del secolo scorso?
«La diversità fondamentale è che queste paure sono limitate
all'Occidente, direi all'Europa. Il senso di smarrimento di cui parliamo non c'è
in Cina, non c'è in India. Meno che mai lo riscontriamo in America Latina, dove
al contrario c'è una grande fiducia nel futuro. E tuttavia l'epoca attuale
richiama per certi versi gli anni Venti del secolo scorso. Crisi della finanza,
globalizzazione, incertezza diffusa, segnali di xenofobia. Le ultime scoperte,
sia pure da confermare, sulla velocità dei neutrini mettono il crisi la fisica
di Einstein non meno di quanto Einstein stesso mise in crisi il sapere
scientifico dell'epoca precedente».
L'uomo dunque non spera più di migliorare?
Oswald Spengler |
«Se ci limitiamo all'Europa, è vero quel che lei dice. Il
nostro sembra essere un mondo dal quale non ci si possono aspettare
miglioramenti. Oswald Spengler scrisse nel 1918 Il Tramonto dell'Occidente:
c'è qualche cosa di simile a noi nell'uomo descritto da Spengler. Un uomo che
non spera di migliorare, ma che punta a conservare semplicemente quel che ha.
Un mondo al tramonto. Ma, ripeto ancora, questo può essere vero soltanto per
questo mondo, per questa Europa. Il resto del pianeta è un'altra cosa. Anche
perché gli eventi non davano ragione a Spengler. Lei parlava di Einstein. Non
so se sia un caso che la teoria della relatività generale nasca a Zurigo negli
stessi anni in cui proprio a Zurigo emergono le avanguardie artistiche. Erano
espressioni di un mondo che stava cambiando».
Non le sembra eccessivo il ruolo attribuito alla scienza
e alla tecnica, ormai tentate di dire la loro anche in discipline riservate
fino a ieri a filosofi e teologi?
«Guardi, il ruolo della scienza è favorito dal prestigio
sociale degli scienziati. Le tecniche e la finanza muovono risorse economiche
che premiano il loro lavoro a scapito delle altre discipline. Basta vedere che
cosa accade nelle nostre Università: le Facoltà umanistiche non hanno un
centesimo, ormai. Lo scienziato oggi è un divo, ma solo per il prestigio
sociale di cui gode, per gli interessi economici e finanziari collegati alle
sue attività. Non per la capacità della scienza di offrire risposte all'uomo
del nostro tempo».