Per colpa dei leghisti metteremo la coccarda. Intervista a Gianni Vattimo
di Tonino Bucci
Ci siamo. Dell’Unità d’Italia che oggi si festeggia giunge solo l’eco delle guerricciole simboliche tra i leghisti e il fronte dei patriottici del Pdl. Inno di Mameli o meno, la scenografia del centocinquantenario appare piccola, anzi microscopica, dinanzi alle notizie che giungono dal mondo. Qual è, di fronte ai disastri planetari del Giappone, la forza autocelebrativa di un paese che a malapena, ancora oggi, può proclamarsi davvero unito nella cultura e nelle condizioni materiali? Ma c’è, soprattutto, da confessare un certo imbarazzo nell’essere presi tra due fuochi: la retorica antirisorgimentale dei leghisti, da un lato, che riabilitano il tregionalismo, le piccole patrie, i localismi, un’Italia insomma in cui i diritti valgano solo in funzione delle appartenenze etniche; e dall’altro la melassa della retorica, il viva l’Italia dei talk show, l’inno di Mameli (con tutto il rispetto per questo combattente caduto a difesa della Repubblica romana) trasformato nella colonna sonora del vogliamoci bene. E’ con Gianni Vattimo, filosofo, teorico del pensiero debole e torinese di nascita, che ne parliamo.
Non saremmo mica costretti a scegliere tra il delirio dei leghisti e la retorica di facciata?
Questa melassa è uno degli effetti collaterali del fatto che c’è la Lega. Io vado al Gay Pride solo perchè c’è il Papa che ce l’ha con noi e rompe l’anima, altrimenti non mi muoverei. Di solito non indosso le piume di struzzo. Se non ci fosse, la Lega bisognerebbe inventarla. Che motivo ci sarebbe di tanta retorica per in centocinquantenario? Se le persone vanno in giro con la coccarda è perchè ce l’hanno con questi razzisti xenofobi – e anche un po’ imbecilli – dei leghisti. Al di là della presa di posizione antileghista – che è sacrosanta e che dovrebbe però avere la forza di sbaraccare la Lega – c’è qualcos’altro in questa celebrazione? Mi ricordo del centenario del 1961. L’Italia di allora non era mica ossessionata dall’inno. Si pensava piuttosto a come conquistare le olimpiadi, a rimediare soldi per finanziare opere pubbliche. La celebrazione era un’occasione per il miglioramento collettivo, economico, architettonico. Francamente non ricordo che ci fosse un grande spirito nazionalista o un amore spropositato per il tricolore. Il fascismo era finito da poco, il nazionalismo era oggetto di culto del Movimento sociale.
La sinistra italiana – a parte Craxi – ha sempre guardato con sospetto all’idea di nazione, troppo legata all’uso imperialistico che storicamente ne ha fatto il fascismo. Eppure, di fronte alla Lega che esalta le piccole patrie, siamo costretti a rispolverare il concetto di nazione che, in fondo, combinato con la Costituzione, è garanzia di uno spazio universalistico dei diritti. O no?
E’ vero. Per la sinistra può essere una buona occasione, di distinguere il nazionalismo da un concetto di nazione che non contraddica la solidarietà internazionale. Solo che oggi è diventato tutto una melassa e francamente di questa retorica per l’Unità ne farei volentieri a mano. Io mi sento italiano quando mi metto a tavola e quando gioca la Nazionale, per il resto non me ne importa niente. L’unico patriottismo che si può rivendicare oggi è quello costituzionale, come dice Habermas. Sono affezionato a una certa tradizione politico-culturale a condizione che non escluda le altre. Anche il dialetto mi piace. Che poi l’Italia unita sia meglio di quella disunita, di questo non sono pienamente convinto. Non vorrei sembrare leghista, ma perchè la gente lottava per l’unità d’Italia? Perchè credeva in una trasformazione più radicale, che non riguardasse soltanto il passaggio di sovranità, dai Borboni ai Savoia, ma cambiasse anche le condizioni sociali ed economiche. Non ci si ribellava soltanto all’oppressione dello straniero, ma all’oppressione in generale. Ci è mancata una rivoluzione sul modello di quella francese, che non è stata una semplice rivoluzione nazionalista. Io credo che il Risorgimento muovesse gli animi non solo con le parole d’ordine unitarie, ma anche con aspirazioni socio-politiche. Dell’Italia una d’arme, di lingua, d’altare non ce ne frega niente sinceramente. E poi c’è l’aspetto colonialistico di un’unificazione che ha assunto la forma di un’espansione dei Savoia. Questo è stato il nostro Risorgimento, condizionato dalla presenza di una casa regnante che ha occupato il sud e ha fatto la guerra ai contadini del meridione chiamandoli briganti. Ma vorrei fare anche un’altra considerazione. Mazzini, Cavour e Garibaldi avevano un progetto e l’hanno realizzato senza che un popolo fosse chiamato a votarlo. Io sono molto sensibile ai limiti della democrazia formale. Quei personaggi non rappresentavano la maggioranza, erano un’elite che aveva un progetto ed è riuscita a realizzarlo. I plebisciti certo sono stati fatti, ma erano elezioni corrette dal punto di vista procedurale, chissà? Ma allora non capisco perchè la gente celebri il Risorgimento e poi se la prenda, che so, con un Fidel Castro perché a Cuba non ci sono le elezioni.
Nella retorica ufficiale non c’è nessuna traccia dell’anima anticlericale che ha segnato il nostro Risorgimento, perlomeno dal 1848 in poi. Non trova?
E’ diventato un valore così isituzionale che nelle celebrazioni ci deve essere anche il vescovo. Sennò che celebrazione è? Mi è capitato di scrivere di recente la prefazione alla raccolta di scritti di Vittorio Gorresio (storico e giornalista de La Stampa scomparso nell’82, ndr), uscita col titolo Risorgimento scomunicato. Ne avessimo di lotte anticlericali come quelle là. C’erano anche dei cattolici che odiavano il Papa.
Nel dopoguerra c’è stato un momento di recupero del Risorgimento, del quale la Resistenza era considerata la prosecuzione e il compimento. Non è così?
La teoria popolare a Torino, negli anni in cui iniziavo a frequentare l’università, era che la Resistenza era stata il compimento del Risorgimento. Lo stesso Gramsci si sentiva in continuità con la rivoluzione liberale dell’Ottocento – e con lui, Gobetti. Ma oggi l’abbracciare la retorica risorgimentale è anche un segno che non sappiamo dove sbattere la testa.
Veniamo da anni di disincantamento della politica. Anche la sinistra nei discorsi pubblici ha ostentato pragmatismo e realismo. Cosa è sucesso, oggi abbiamo bisogno di reincantare di nuovo la politica? Dove la prendiamo una nuova religione civile?
Tutto il fervore centocinquantenario di Torino non è dovuto solo a bassi motivi economici, a interessi turistico-alberghieri – c’è gente che ci guadagna, come con la Tav – è che proprio non sappiamodove sbattere la testa. Questo è un paese che non ha una religione civile, nè un’ideologia politica in grado di muovere e commuovere. Voi di Liberazione lo sapete. Una volta doveva venire Baffone, oggi non c’è niente da aspettare, non abbiamo niente in cui credere e dobbiamo rispolverare le memorie di famiglia. Forse il mito del futuro sarà l’ecologismo. Le notizie che arrivano dal Giappone ci costringono a prenderne atto. C’è poco da festeggiare.